Dopo i fatti di Washington, il clima politico si è drasticamente deteriorato negli USA, e non solo. Un gruppo di scalmanati, al termine di un comizio tenuto da Donald Trump nel giorno della ratifica del Congresso dell’elezione di Joe Biden, si è staccato e ha fatto irruzione niente di meno che a Capitol Hill, costringendo deputati e senatori a barricarsi in aula per paura di essere oggetto di violenze fisiche. E’ il 6 gennaio e il bilancio della vicenda si mostra assai grave: 5 morti, di cui un agente della sicurezza.
Trump viene considerato il mandante morale e finanche materiale dei facinorosi, almeno da gran parte della stampa e dell’opinione pubblica mondiale. Nelle ore successive, il presidente americano, che non aveva sino ad allora riconosciuto la sconfitta, prende atto del clima di estrema tensione nella nazione e rassicura sulla transizione pacifica verso l’amministrazione democratica al 20 gennaio. Gli avversari ne chiedono le dimissioni o la rimozione per infermità mentale. E mentre gli schieramenti discutono su come affrontare questi ultimi giorni di presidenza, i social fanno un passo avanti. Facebook ha annunciato di aver sospeso il profilo di Trump fino al 20 gennaio, mentre Twitter dapprima sospende l’account per 12 ore, successivamente decide di rimuoverlo permanentemente. Oltre 88 milioni di follower perduti e, non a caso, nelle negoziazioni pre-market di ieri, il titolo della società dei cinguettii perdeva fino all’8%.
Ma è avvenuto qualcosa di più. A parte che ad essere bannati dai social sono stati anche i profili dei più stretti collaboratori di Trump, tra cui Michael Flynn, ex consigliere alla Sicurezza, i diretti interessati avevano annunciato che si sarebbero spostati su Parler, un’app simile a Twitter, usata negli ambienti conservatori americani. Ma immediatamente Google annuncia di averne sospeso il “download” tramite il suo Play Store Android, seguita da Apple poche ore dopo con il blocco su App Store.
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La collusione tra i giganti della Silicon Valley
A questo punto, il presidente Trump, quale che sia il giudizio di ciascuno di noi sulla sua persona e sul suo operato, si ritrova nella posizione paradossale di trovarsi ancora per pochi giorni nello Studio Ovale, l’ufficio più potente del pianeta, ma senza alcuna libertà di parola sui social. In molti hanno rimarcato la natura privata di queste società, non tenute a garantire alcunché a nessuno, specie se un profilo ne violi il codice di condotta.
A parte che siamo dinnanzi a una lettura semplicistica, perché non esiste società privata che non sia tenuta a rispettare alcune leggi fondamentali, come accade per il mondo dei media. Il fatto è che stiamo parlando di piattaforme ormai quasi monopolistiche sui social. Nell’ultimo decennio, sono diventate la piazza principale della comunicazione politica e non, mentre adesso “scopriamo” che questa possa venir sottratta a chicchessia senza troppe spiegazioni. Un po’ come se negli anni Novanta le reti televisive avessero deciso di censurare un politico, invitandolo ad affidarsi solamente ai giornali. O come se negli anni Cinquanta, le redazioni giornalistiche avessero bannato un capo di stato, suggerendogli di affidarsi ai soli comizi di piazza per comunicare con la cittadinanza.
Ma quel che sta accadendo è ancora più grave e non riguarda neppure la sola sfera politica, come le opposte tifoserie anti- e pro-Trump stanno cadendo nell’errore di credere. La censura di Parler è inqualificabile, perché segnala come un piccolissimo nucleo di persone riesca nei fatti a controllare non solo la comunicazione, ma a restringere la concorrenza. In pratica, Google e Apple da soli hanno impedito a una società concorrente a Twitter di crescere con una scusa che non si regge in piedi, dato che il social esiste da un paio di anni e sembra incredibile che solo adesso ci si accorga di eventuali “falle” nei controlli dei post pubblicati.
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Capitalismo a rischio
Qui, non è in gioco la libertà di parola di Trump, ma di tutti. Anzi, è in gioco la libertà d’impresa stessa. Poiché le infrastrutture di internet sono in mano a pochissimi colossi con sede nella Silicon Valley, questi stanno con ogni evidenza colludendo tra loro per arrestare ogni avanzata possibile di una qualche forma di concorrenza. Sarebbe come se a una gara di auto, in qualità di gestore di un tratto stradale impedissi l’ingresso a nuovi veicoli, accampando la scusa che siano sprovvisti di assicurazione, così che a competere siano sempre gli stessi, spesso anch’essi sprovvisti di copertura assicurativa.
Né si creda che i colossi in questione siano genuinamente progressisti. Lo sono ipocritamente per strizzare l’occhio a una stampa liberal molto potente e al contempo per mendicare un po’ di benevolenza dalla prossima amministrazione americana, dopo che i democratici hanno presentato in campagna elettorale un piano per chiedere la scissione di aziende troppo grandi, specie di Facebook. In questo caso, sono stati appoggiati dai rivali repubblicani, con 47 stati su 50 ad avere chiesto che il social venga separato da WhatsApp e Instagram.
Chi tifa per l’embargo social di Trump, mosso dalla sola antipatia verso il tycoon, vede il dito e non la luna. A rischio vi sono le libertà fondamentali su cui poggia il capitalismo, vale a dire la circolazione delle idee (tutte, pur un minimo monitorate per evitare sgradevoli ripercussioni) e l’ingresso sempre possibile sul mercato di nuove realtà.