Lunedì scorso, per la prima volta da due anni il cambio euro-dollaro ha fatto una capatina oltre la soglia di 1,20, salvo ritirarsi subito dopo. E’ un fatto che la moneta unica si sia rafforzata vistosamente da maggio, quando contro il biglietto verde si aggirava intorno a un rapporto di 1,08. Per la BCE, una buona notizia. Anzitutto, perché segnala che il mercato ha ripreso fiducia nell’Eurozona, grazie sia ai potenti stimoli monetari varati dall’istituto e, soprattutto, al “Recovery Fund” con cui la Commissione UE ha voluto reagire in maniera straordinaria alla crisi provocata dalla pandemia.
A beneficiare di questo clima relativamente positivo sui mercati sono i bond dell’area, sia pubblici che privati. Certo, lo spread italiano resta elevato – ieri è tornato a superare i 150 punti base per la scadenza a 10 anni -, ma chi avrebbe immaginato che ci saremmo indebitati a tassi medi sotto l’1% con il pil che crolla a doppia cifra? E il cambio euro-dollaro nei pressi di 1,20 fa bene alla causa, perché il rafforzamento dell’euro (anche contro le altre valute principali) denota il rischio di una ulteriore decelerazione nella crescita dei prezzi al consumo. I beni importati costano di meno e ciò riduce l’inflazione, che in agosto nell’area era già negativa per lo 0,2% su base annua.
Cambio euro-dollaro ai massimi da 2 anni, verso inflazione sottozero?
L’opzione più stimoli BCE
Poiché la BCE ha come (formalmente) unico obiettivo di centrare un target d’inflazione nell’anno “vicino, ma di poco inferiore al 2%”, il governatore Christine Lagarde di questo passo non avrà altra scelta, se non di potenziare gli stimoli monetari, anche solo facendone intravedere una durata più lunga. Questo, in virtù anche del fatto che l’Eurotower non possa permettersi il lusso di un cambio forte che colpisca le esportazioni dell’area nel momento in cui servono più che mai per sostenere il rilancio del pil dopo il crollo di questi mesi.
L’eventuale irrobustimento degli acquisti di assets darebbe ulteriore impulso ai prezzi già altissimi delle obbligazioni sovrane e corporate. Nel peggiore dei casi, i rendimenti non tornerebbero a salire. E se con il PEPP sono stati stanziati 1.350 miliardi fino al giugno 2021, il “quantitative easing” prevede ancora 20 miliardi mensili e un budget straordinario anti-crisi da 120 miliardi. A seconda che a preoccupare siano prevalentemente gli strascichi della pandemia (o una seconda ondata dei contagi) o le condizioni “strutturali” dell’area, la BCE potrà incrementare rispettivamente il piano emergenziale (PEPP) o quello ordinario (QE). Per i governi e le imprese, la possibilità di continuare a indebitarsi a costi mai così bassi. Per gli investitori, la consapevolezza che non torneranno presto a rivedere rendimenti accettabili, se non a fronte di rischi medio-alti.