Focus sulla disciplina del licenziamento discriminatorio, nullo, economico (per giustificato motivo o giusta causa), collettivo prima e dopo l’entrata in vigore del nuovo contratto a tutele crescenti per le nuove assunzioni in vigore dal 7 marzo 2015.
Licenziamento e il contratto a tutele crescenti
Prima la riforma Fornero contenuta nella legge n. 92 del 2012 e ora il Jobs Act di Renzi hanno cambiato la disciplina sul licenziamento e per capire le differenze abbiamo elaborato la seguente tabella che mette in luce le differenze tra i lavoratori assunti prima del 6 marzo 2015 e quelli dopo il 7 marzo 2015 quando cioè è entrata in vigore il nuovo contratto a tutele crescenti.
- Lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015: in caso di licenziamento indicato come illegittimo la sanzione per il datore è la reintegra sul posto di lavoro.
- Lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015: il Giudice dovrà disporre la reintegra del lavoratore che dovrà riprendere servizio entro trenta giorni dall’invito che riceve dal datore di lavoro, condannare il datore di lavoro al pagamento di una indennità parametrata sull’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del T.F.R. e corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra e condannare il datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali. Se dinanzi all’invito del datore di lavoro, il lavoratore non intende più mettersi a disposizione può chiedere, in sostituzione della reintegrazione, il pagamento di una indennità (non sottoposta a contribuzione previdenziale) pari a 15 mensilità.
Licenziamento per giustificato motivo o giusta causa: è quello con cui il datore di lavoro interrompe unilateralmente (senza accordo da parte del lavoratore) il rapporto di lavoro con il dipendente per motivi che non riguardano il comportamento di quest’ultimo, ma per ragioni che riguardano la riorganizzazione aziendale e l’impossibilità di riutilizzare il lavoratore licenziato ricollocandolo altrove.
- Lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015: se il Giudice ritiene fondata la contestazione e accerta che non sussistevano i motivi previsti dalla legge per procedere al licenziamento, riconoscerà al lavoratore una somma di denaro (a titolo di indennità) che può variare da un minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24 mensilità. In questo caso però il rapporto di lavoro si interromperà pur essendo illegittimo il licenziamento. Se però le ragioni alla base del licenziamento risultano manifestamente infondate (cioè, per dirla in altre parole, se il torto del datore di lavoro è evidente) il Giudice può anche ordinare al datore di lavoro di riprendere alle sue dipendenze il lavoratore.
- Lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015: se il licenziamento è illegittimo il giudice potrà soltanto condannare il datore di lavoro a pagare al lavoratore ingiustamente licenziato una indennità pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. L’indennità così calcolata non potrà mai essere inferiore a 4 mensilità nè superiore a 24 mensilità e non sarà assoggettata a contribuzione previdenziale. Il Giudice non ha il potere di disporre la reintegra nel posto di lavoro. Tali regole però valgono esclusivamente nel caso in cui il datore di lavoro che procede al licenziamento occupi più di 15 dipendenti (se imprenditore agricolo più di 5 dipendenti) in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo e, in ogni caso, qualora occupi complessivamente più di sessanta dipendenti. Se il datore di lavoro non possiede questi requisiti (c.d. requisiti dimensionali) le indennità risarcitorie sono ridotte della metà e non possono comunque superare le sei mensilità.
Licenziamento collettivo: indica l’ipotesi nella quale un’impresa, per motivi di crisi, di ristrutturazione aziendale o di chiusura dell’attività, effettua una riduzione del personale.