Facebook ha cambiato la vita di molte persone e non sempre in bene, soprattutto quando si parla di lavoro. Non sono rari, infatti, i casi di persone che a causa di un post su Facebook hanno perso il lavoro. Ormai sembra quasi impossibile scindere la vita reale da quella virtuale, i social sono come una piazza pubblica in cui è facile fare una battuta o dire la propria su qualcosa ma raramente si pensa che essendo appunto come una piazza pubblica, il rischio è quello di mettersi nei guai.
Perdere il posto per colpa dei social
Il Corriere di recente ha affrontato del tema raccontando la storia di Clemmie Hooper, una ex ostetrica inglese che a causa delle sue attività online ha perso il lavoro. La ragazza era diventata famosa su Instagram come «mumfluencers» e aveva migliaia di followers. Tutto bene finchè non si è scoperto che tramite degli account fake insultava le sue rivali. Fu proprio lei a autodenunciarsi raccontando che tutto ebbe inizio quando scoprì una pagina in cui lei e la sua famiglia venivano insultate pesantemente e così per vendicarsi l’influencer ed ostetrica Clemmie Hooper, decise di aprire degli account fake per fare la stessa cosa nei confronti dei suoi carnefici. Ad un certo punto, però, ha capito lo sbaglio e non solo ha chiuso tutti gli account ma ha chiesto anche Consiglio infermieristico e ostetrico del Regno Unito di non poter più esercitare come ostetrica. Il caso della 30enne inglese è salito alla ribalta delle cronache più per l’autodenuncia che per altro; la giovane, infatti, ha dimostrato di aver compreso come i social possano cambiare la vita delle persone.
I casi italiani
Di recente, un altro caso simile, stavolta in Italia, con protagonista un giovane vice allenatore di una squadra di calcio che è stato licenziato per aver rivolto pesanti insulti a Greta Thunberg.
Come scrive Il Corriere, che ha riportato le parole di Virginia Mantouvalou, professoressa specializzata in diritti umani e diritto del lavoro all’University College London, sembra che i casi di licenziamento legati a qualche post su Facebook siano tantissimi e che non sempre sono legittimi in quanto i datori di lavoro non dovrebbero “avere il diritto di censurare le opinioni e le preferenze morali, politiche e di altro genere dei loro dipendenti anche se causano danni agli affari”. Il nodo però resta: da un lato i social visti appunto come spazi pubblici in cui qualunque cosa si dice rischia di tornare indietro come un boomerang, dall’altro lato i tribunali che in materia social non sono ancora del tutto esperti. Un conto, insomma, diffamare chiaramente qualcuno, un conto esprimere un’opinione che “non è da intendersi personale e non rappresentativa dell’azienda per cui si lavora”.
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