Il Bitcoin non s’ha più da estrarre. Retromarcia del governo iraniano, che ha fatto chiudere ben 1.600 centri di “mining” in tutto il paese, persino quelli che aveva precedentemente autorizzato. La decisione è stata presa per effetto dei frequenti “blackout” che si sono registrati nelle ultime settimane e che hanno lasciato al buio milioni di famiglie, Teheran compresa. Estrarre la “criptovaluta” comporta un enorme dispendio di energia e il collasso della rete elettrica è stato messo in relazione proprio al “mining”.
L’Iran figura tra le prime 10 economie al mondo per produzione di Bitcoin, con 450 megawatt al giorno di energia impiegati.
Tanto per fare un raffronto, gli USA vi impiegano 1.100 megawatt al giorno. Ma secondo i dati dello stesso Ministero delle Telecomunicazioni, i 260 megawatt attualmente consumati per estrarre Bitcoin inciderebbero per appena il 2% dell’intera produzione di energia. In pratica, Bitcoin non sarebbe affatto il problema, semmai è diventato il perfetto capro espiatorio per celare le vere cause della crisi, cioè anni di disinvestimenti da parte della compagnia elettrica per potenziare la rete. Inoltre, essendo sotto
embargo, l’Iran non riesce a vendere sui mercati tutto il petrolio che estrae. Questi è ad alto contenuto di zolfo e, una volta estratto, se non esportato subito, finisce per essere bruciato, tra l’altro proprio per alimentare le centrali idroelettriche al posto del gas naturale. Da qui, la coltre nera che sta oscurando da settimane le aree urbane del paese, aumentando i rischi per la salute pubblica.
Il regime dell’ayatollah aveva puntato sui Bitcoin per sfuggire alle sanzioni internazionali. Non potendo accedere direttamente ai dollari, aveva sperato che la “criptovaluta” potesse rimediare al problema. E gli stessi iraniani restano profondamente inclini al “mining”, puntandovi per cercare di proteggere il potere di acquisto, altrimenti compromesso da un cambio costantemente al collasso.
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Verso la maxi-svalutazione del rial
Negli ultimi 10 anni, il rial ha perso oltre i tre quarti del suo valore contro il dollaro al cambio ufficiale.
Preoccupante è anche il crollo che ha subito il cambio vigente sul
mercato nero dal 2015, anno in cui veniva raggiunto l’accordo sul nucleare con gli USA, stracciato nel 2018 dall’amministrazione Trump. Nei giorni scorsi, la Commissione Finanze del Parlamento ha votato a favore della proposta di imporre un cambio fisso di 175.000 rial per un dollaro, in relazione all’acquisto dei beni primari. Si tratterebbe di una
maxi-svalutazione nei fatti di oltre il 75%. Ad oggi, infatti, vige un sistema di cambi multipli nel paese: il cambio ufficiale di 42.000 viene utilizzato per importare generi alimentari e farmaci. Poi, esiste il NIMA, fissato un po’ più forte del cambio di mercato e che può essere utilizzato per importare altri beni primari, come macchinari e materie prime. Infine, c’è il cambio di mercato, che fornisce la dimensione esatta del valore reale del rial. Attualmente, scambia a circa 233.000 contro un dollaro.
Nelle intenzioni di parte del Parlamento, questi cambi andrebbero unificati per evitare le distorsioni ai danni dell’economia iraniana. Nei fatti, Teheran si ritrova con un cambio ufficiale troppo forte, che tende a prosciugare le riserve valutarie, tenendo alte le importazioni e a disincentivare le esportazioni. Ma la maxi-svalutazione in vista con la fissazione di un tasso di cambio prossimo a quello di mercato per gli iraniani significherà pagare a prezzi molto più alti tutti i beni di prima necessità importati dall’estero. Di male in peggio per un paese, che già esibisce tassi d’inflazione in area 45%. Eppure, la misura appare necessaria per evitare una spirale iperinflazionistica come quella del Venezuela degli ultimi anni.
I Bitcoin servono come via di fuga non solo dalle sanzioni, ma anche dal collasso proprio del cambio reale e del potere di acquisto delle famiglie.
L’Iran aveva persino incentivato il ricorso alla “criptovaluta”, puntando a diventare un riferimento per il “mining”, anche grazie alle
bollette della luce sussidiate e che tengono molto bassi i costi di produzione: rispetto ai 13 centesimi per kilowattora degli USA, qui si pagano solamente 3 centesimi. Ma l’inverno rigido ha incrementato i consumi energetici, contribuendo a mandare in tilt la rete. Per il momento, quindi, la repressione ai danni dei Bitcoin renderà molto più difficile per gli iraniani fronteggiare gli spasmi di un sistema economico al collasso. Una buona notizia per le quotazioni della moneta digitale più popolare al mondo, dato che la minore offerta prevedibile dovrebbe sostenerne i corsi. Pessima per le famiglie iraniane, che disporranno di minori mezzi per difendersi dall’inevitabile crac ufficiale del rial.
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