Lo chiamano capitalismo, ma siamo entrati nell’era del socialismo finanziario

Banche centrali e governi hanno nei fatti ucciso il sistema capitalistico, sostituendolo con azioni coordinate, per quanto spesso improvvisate, per azzerare il rischio di default.
5 anni fa
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Dobbiamo avere il coraggio di dirlo: il capitalismo è morto! Quel sistema di creazione della ricchezza che abbiamo conosciuto negli ultimi tre secoli e che, pur spesso corretto e limitato dalle azioni dei governi, aveva consentito alle società di evolversi fino a raggiungere un grado di benessere diffuso come mai prima nella storia, non esiste più. Quel sistema si reggeva non solo sulla libera iniziativa, il libero commercio e la proprietà privata, tra cui dei mezzi di produzione, ma anche su un concetto fondamentale: il fallimento.

Investire implica sempre assumersi un rischio. I capitali per finanziare gli investimenti pretendono giustamente di essere remunerati e il tasso richiesto per ciò dipende in parte proprio dal grado di rischio percepito. Più è alto, maggiore l’interesse preteso.

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Il fallimento in un sistema capitalistico non è sinonimo di tragedia. Dai fallimenti nascono i tentativi di apportare qualcosa di nuovo al mercato e si impara a non ripetere gli errori che li hanno determinati. Il fallimento suggella il discrimine tra un’idea buona e un’idea pessima, almeno sul piano dell’applicazione pratica. Se apro un’attività di vendita di ghiaccio in Groenlandia dovrò aspettarmi che con ogni probabilità non diverrò milionario. E se anche trovassi uno schizzato disposto a prestarmi i denari per investire nel progetto, verosimilmente pretenderà interessi stellari, date le elevate probabilità di fallire l’impresa.

Così funziona l’allocazione efficiente dei capitali, quando sono liberi di muoversi. La globalizzazione degli ultimi 20-30 anni ha messo a disposizione di ogni impresa e di ogni stato una mole di capitali che prima era anche solo inimmaginabile. Questi si sono spostati laddove il loro impiego risultava più profittevole, tenuto conto del rischio e annullando forme possibili di arbitraggio geografico, oltre che temporale, aumentando il grado di efficienza del mercato.

Se oggi riusciamo come Italia ad emettere debito all’1-2% anche sulle lunghe scadenze e, addirittura, riteniamo questi livelli di rendimento persino eccessivi, quando a inizio anni Novanta pagavamo un BTp decennale sopra il 14%, è anche grazie all’apertura dei mercati finanziari e alla mobilità dei capitali senza precedenti.

L’azzeramento del rischio

Ma nell’ultimo decennio, quando il capitalismo sembrava avere raggiunto l’apice della sua efficienza, il sistema ha subito uno stravolgimento epocale e, forse, definitivo. Dopo la crisi finanziaria globale del 2008, scaturita dai rischi eccessivi e mal calcolati del mercato dei mutui “subprime” americano, le banche centrali sono venute in soccorso di banche commerciali e governi per impedire un collasso della liquidità, memori di quanto fosse avvenuto negli anni della Grande Depressione dopo il 1929. Una montagna di debito pubblico e di assets privati, tra cui bond garantiti da ipoteche, obbligazioni private e bancarie garantite, è stata acquistata dagli istituti, con la conseguenza che i rendimenti di mercato sono letteralmente spariti.

Nell’ultimo biennio, in particolare, è esploso il fenomeno dei rendimenti negativi, vale a dire che chi emette debito (stati e alcune realtà private) viene pagato da chi gli presta capitali. Sarebbe teoricamente normale che accadesse in una condizione di deflazione, ma per quanto bassa sia la crescita dei prezzi nel mondo avanzato, una pur minima inflazione continua ad esistere, per cui i rendimenti negativi si configurano a tutti gli effetti come un trasferimento di ricchezza dai creditori ai debitori. Una follia, che viene incentivata dalle banche centrali, che ormai iniziano a prestare denaro alle banche commerciali a tassi negativi, cioè glielo regalano, purché lo prendano in prestito.

Fantastico un modo dove il denaro non costi più nulla, vero? Eppure, la prima conseguenza di questa assurdità è proprio la morte del capitalismo. Man mano che i bond hanno iniziato a rendere sempre meno negli ultimi anni, i capitali si sono dovuti spostare sui comparti di mercato più rischiosi, così da spuntare una remunerazione maggiore.

Con il tempo, però, si è arrivati al punto che persino i debitori “high yield” hanno potuto rifinanziarsi a tassi minimi, scesi in qualche caso sottozero nel corso dello scorso anno. Qui, l’assurdità è stata ancora più lampante: i titoli “ad alto rendimento” sono finiti per rendere negativamente. Gli investitori hanno dovuto pagare gli emittenti a rischio per avere il privilegio di prestare loro denaro, quando per definizione sarebbero soggetti esposti al rischio default.

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Dunque, il rischio non viene più remunerato e non solo perché la liquidità sui mercati è diventata eccessiva, ma anche perché esso stesso è stato nei fatti azzerato, almeno nel mondo ricco. Con gli ultimi interventi anti-Coronavirus, le banche centrali hanno messo in chiaro che non consentiranno in nessun caso né che falliscano gli stati, né che falliscano le grandi società e le stesse banche. La differenza che ancora oggi ci ostiniamo ad effettuare tra soggetti “high grade” e soggetti “high yield” è diventata solo teorica. Nessuno verrà fatto fallire, per cui il rischio insito nell’impiego dei capitali è annullato. Il premio richiesto per finanziare società, banche e governi in affanno finanziario si riduce e di qui a breve dovremmo supporre che si azzeri del tutto.

Tutto questo segna la fine del capitalismo. L’allocazione dei capitali non è più efficiente da tempo, a causa dell’opera di sussidiamento operata dalle banche centrali nei confronti di soggetti che non fanno più i conti con la concorrenza e la realtà. Il mercato non discerne più tra idee e investimenti buoni e idee e investimenti cattivi, perché tanto i secondi non intaccheranno i capitali nemmeno nello scenario peggiore e, oltre tutto, ormai è sufficientemente allettante anche l’offerta di un rendimento a premio minuscolo.

Ma se nessuno fallisce, significa che comportarsi bene non ha senso. Gestire con prudenza i conti dello stato, di una banca o di una società non è più sinonimo di ottenimento di condizioni finanziarie significativamente migliori sui mercati. E i soggetti che si comportano male proseguono imperterriti nelle loro cattive azioni, continuando ad essere eletti in barba alla cattiva gestione della cosa pubblica e a sopravvivere sul mercato, come nel caso di banche e società inefficienti o palesemente decotte.

E se nessuno fallisce, significa che qualcuno copre i costi dei mancati fallimenti, sia esso il mercato stesso tramite i meccanismi stravolti di finanziamento di cui sopra o il contribuente con il pagamento delle tasse. Dunque, i profitti rimangono privati, le perdite vengono socializzate. Siamo già entrati nell’era del socialismo finanziario, che ai cultori del capitalismo piace tanto, perché azzera loro il rischio di rimetterci quattrini. Rimarranno alquanto terrificati, quando prestissimo scopriranno – o forse hanno iniziato a scoprire – che dal socialismo finanziario si stia passando al socialismo reale, con imprese e banche “strategiche” ad essere sottoposte al controllo pubblico, con le banche centrali stesse che si spingeranno fino a diventare non solo creditrici, bensì pure azioniste (proprietarie) degli assets privati che fino ad oggi hanno sostenuto dal rischio di fallimento. E allora si griderà “al lupo, al lupo”, ma saranno state le stesse pecore ad averne invocato l’arrivo senza nemmeno comprenderlo.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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