Il dato sul PIL USA nel primo trimestre, pubblicato giovedì scorso, ha sorpreso un po’ tutti molto negativamente. Ci si attendeva una crescita annuale di circa l’1%, mentre l’economia americana si è contratta dell’1,4% per la prima volta da due anni. Suona l’allarme recessione persino per la prima economia mondiale, la quale eppure godrebbe di ottima salute, almeno stando ai numerosi dati macro che avevano preceduto quello di questa settimana. La curva dei rendimenti a stelle e strisce si direbbe che non menta mai.
Le condizioni dell’economia americana
Nel dettaglio, le importazioni sono salite e le esportazioni scese, per cui il saldo commerciale ha sottratto ben 3,2 punti di PIL. Le scorte hanno fatto il resto sottraendo un altro 0,82%. Al contrario, i consumi delle famiglie sono cresciuti del 2,7%. E parliamo di una componente che negli USA sfiora il 70% del prodotto interno lordo.
Secondo gli analisti, l’economia americana non sarebbe sull’orlo di una nuova recessione. Il calo del PIL conseguirebbe a un temporaneo aumento delle importazioni per rimpinguare le scorte. Se questo è vero, non si può non notare che l’inflazione americana, salita all’8,5% a marzo, rischia di colpire proprio i consumi privati, cioè l’ossatura della ripresa post-pandemia. E il super dollaro non aiuta certo le esportazioni, anzi sostiene proprio le importazioni americane.
Recessione in vista per l’Europa
Ma, soprattutto, il dato USA getta un’ombra cupa sull’economia europea. Non è un mistero che questa non fosse in forma smagliante già prima della guerra tra Russia e Ucraina. A differenza dell’America, la domanda aggregata interna nell’Area Euro è debole e il contesto bellico non dà certo una mano. Dovremmo confidare sull’export, specie verso gli USA, che incide per oltre un centinaio di miliardi di dollari netti solamente tra Germania e Italia.
Nel primo trimestre, il PIL nell’area è aumentato dello 0,2%, il ritmo più basso dal ritorno alla crescita dopo il secondo trimestre del 2020. La Germania ha schivato la recessione tecnica, mentre la Francia è finita in stagnazione e l’Italia ha registrato un calo del PIL per il contributo negativo arrivato dalle esportazioni.
Dicevamo, il super dollaro – per converso, la debolezza dell’euro – spinge almeno a guardare con relativo ottimismo alle esportazioni. Ma da sole non bastano. I rincari delle materie prime, specie di petrolio e gas, stanno colpendo i livelli di produzione, mandando in orbita i costi e i prezzi finali. E l’incertezza sulla durata della guerra non aiuta. La speranza che la Russia voglia chiudere entro il 9 maggio, giorno di celebrazione nazionale della vittoria sul nazismo, sembra mal riposta.
La spada di Damocle della guerra sul PIL europeo
Putin avrebbe intenzione di puntare su Odessa dopo avere quasi del tutto espugnato Mariupol. Ciò farebbe montare l’escalation militare con l’Occidente, perché la città portuale è importante per i traffici commerciali della Turchia, per le esportazioni della stessa Ucraina e si trova fin troppo vicina alla Transnitria, regione russofona moldava nei fatti indipendente dal 1992. In pratica, anziché avvicinarci a una qualche soluzione, staremmo andando verso una fase ancora più drammatica e pericolosa del conflitto. Nel frattempo, Svezia e Finlandia faranno richiesta di adesione alla NATO e la Russia potrebbe reagire cercando di alzare il tiro su Kiev e mettendo nel mirino proprio la Transnistria.
Il prolungamento della guerra porterebbe nel migliore dei casi alla recessione, che tecnicamente si avrebbe con il calo congiunturale del PIL per due trimestri consecutivi.