L’allarme spread sta già risuonando. Il differenziale di rendimento tra i titoli di stato italiani e tedeschi a 10 anni si è portato a 200 punti base, cioè al 2%. E’ il livello più alto da due anni a questa parte. Il BTp 2032 offre ormai poco circa il 3% e il Bund di pari durata intorno all’1%. L’impennata deriva dal fatto che il mercato obbligazionario stia scontando un rialzo dei tassi BCE per i prossimi mesi. L’Eurozona aveva un tasso d’inflazione al 7,5% ad aprile, mai così elevato nella sua pur breve storia.
Il problema è che lo spread è schizzato quando ancora i tassi BCE sono negativi. Cosa accadrà quando saranno ben maggiori e sopra lo zero? Se finora l’istituto non è intervenuto per dare una calmata ai prezzi al consumo, è solamente per evitare che si scateni una nuova crisi del debito pubblico italiano. Ma non può pensare di “salvare” l’Italia mandando al disastro il resto dell’Eurozona. L’inflazione va domata, anche perché ne vale della credibilità stessa di Francoforte, il cui target è del 2%. E se assiste inerte alla sua corsa, rischia di alimentare una spirale prezzi-salari-prezzi con effetti recessivi devastanti anche nel lungo periodo.
Rialzo tassi BCE solo con accordo politico
D’altra parte, non può permettersi di scatenare una crisi nel Sud Europa. Ed ecco che il famoso piano anti-spread che va ventilando da un anno sembra possa vedere finalmente la luce. Anche in queste settimane, dal board è trapelata la volontà di varare “nuovi strumenti” per rendere più efficace (“meno frammentaria”) la politica monetaria. In cosa consisterebbe nei dettagli non è ancora noto. In teoria, Lagarde non potrebbe annunciare alcun tetto allo spread, in quanto ciò equivarrebbe a monetizzare i debiti sovrani più rischiosi.
Ma in questi anni di violazioni ne abbiamo viste tante. O meglio, quelle che prima si consideravano tali, in un battibaleno sono diventate misure convenzionali in tempi di crisi. E così, lo spread a 200 punti stavolta farebbe paradossalmente bene all’Italia. Anzi, più esso lievita e più convincerà Francoforte sulla necessità di alzare i tassi salvaguardando i debiti più fragili. Allo scopo serve un accordo “politico”, perché una misura del genere non può essere varata dai tecnici. Un po’ come avvenne nel 2015 con il “quantitative easing”: l’allora governatore Mario Draghi ottenne acquisti massicci di titoli di stato per mettere in sicurezza l’Eurozona; in cambio la Germania pretese dai governi del Sud Europa il rispetto di regole fiscali stringenti. Nel 2012, tra l’altro, era stato votato il Fiscal Compact.
Tetto a spread nell’aria
La Germania di oggi appare un po’ più disorientata di qualche anno addietro. Non solo perché alla cancelleria abbiamo Olaf Scholz e non più Angela Merkel, sostenuto da una coalizione eterogenea. C’è anche la contingenza a mettere i tedeschi con le spalle al muro: tra postumi della pandemia e guerra russo-ucraina con annesso embargo energetico, l’inflazione rischia di arrivare alla doppia cifra. Berlino esce sconfitta sul piano geopolitico dalla chiusura del gasdotto Nord Stream 2 in fase di collaudo. Appaiono smarriti e increduli. Non possono accettare tassi d’inflazione ancora più alti, ma d’altra parte l’unico modo per evitarli sarebbe di creare le condizioni per un rialzo dei tassi BCE al riparo dai rischi di instabilità finanziaria. Ingoieranno il tetto allo spread?