C’è più oro che dollari nei caveaux della Banca di Russia. E non era mai successo prima. Al 30 giugno scorso, secondo i dati dello stesso istituto, tra le riserve valutarie vi erano 128,5 miliardi di dollari investiti nel metallo, pari al 22,9% del totale, a fronte di soli 124,6 miliardi di valuta americana, al 22,2%. In calo anche la quota degli euro, scesa al 29,5%, così come quella degli yuan al 12,2%. In effetti, rispetto al 2007 c’è stata una quintuplicazione dell’oro di Mosca, salito a poco meno di 2.300 tonnellate.
Il valore delle riserve valutarie a novembre risultava pari complessivamente a 583 miliardi di dollari. Chiaramente, esso varia in funzione dei tassi di cambio e delle quotazioni auree. Ed è probabile che alla fine dello scorso anno, l’incidenza dell’oro sia salita ulteriormente, visto che nel corso del secondo semestre le quotazioni del metallo siano cresciute fino a toccare il nuovo record storico superiore ai 2.000 dollari l’oncia, mentre il dollaro si è indebolito mediamente contro le principali valute per via dell’allentamento delle tensioni finanziarie sui mercati.
Fa impressione ad apprendere che solamente nel 2017, la quota di dollari tra le riserve valutarie russe fosse ancora del 45,8%, più che doppia rispetto ai livelli attuali. Nel frattempo, Mosca ha fatto incetta di oro e ha cercato di ridurre considerevolmente il peso del biglietto verde per allentare la dipendenza dall’America dopo essere stata sottoposta a sanzioni internazionali a partire dal 2014, a seguito dell’annessione della Crimea.
Corsa all’oro in Asia: ecco perché Russia, Turchia e Cina comprano
L’Asia vuole sganciarsi dal dollaro
La corsa all’oro è un fenomeno che non riguarda la sola Russia, bensì un po’ tutta l’Asia. La Cina non fornisce dati aggiornati sulle tonnellate possedute, ma sappiamo che nel terzo trimestre del 2020 ne dichiarava quasi 1.950, oltre il triplo dei livelli del 2009. Erano 668 le tonnellate allo stesso trimestre per l’India, quasi raddoppiate in poco più di un decennio.
Dietro a questa strategia, si celano due obiettivi principali: mostrarsi quanto più solidi possibile sul piano finanziario e sganciarsi dall’eccessiva dipendenza verso il dollaro. Qualcuno ha parlato di “dedollarizzazione” in corso, termine che allo stato attuale appare eccessivo, se non altro per il fatto che il ruolo del biglietto verde come riserva di valuta mondiale non sia affatto venuto meno in questi anni, anzi, se vogliamo, è persino cresciuto con le vicissitudini dell’Eurozona. Sta di fatto che soggetti come la Cina ambiscono a far diventare la loro valuta un riferimento, se non alternativo, almeno complementare al dollaro sul piano internazionale, ma in una prospettiva di lungo periodo.
La Cina rafforza lo yuan e accelera la dedollarizzazione del commercio mondiale
Il ruolo del dollaro resta forte, anche per assenza di alternative credibili. L’euro è la moneta unica di 19 economie in continua lotta tra loro sui temi fiscali, e non solo. Lo yen è un riferimento per i mercati asiatici, ma non ha mai scalfito più di tanto il predominio del dollaro. E la sterlina inglese riflette certamente una grande economia, ma non così grande come ai tempi dell’impero britannico. Tuttavia, il mondo è in cerca di soluzioni, specie da quando le stamperie della Federal Reserve hanno evidenziato come il biglietto verde sia tutt’altro che destinato a un futuro radioso certo. Gli USA detengono un elevato debito pubblico (al 130% del PIL a fine 2020), a fronte di una bilancia commerciale e partite correnti cronicamente passive.