Mercato nero delle rupie con lotta al contante
“Vuoi comprarti le mie 100 banconote da 1.000 rupie che non potrei portare in banca? Te le vendo per meno del loro valore nominale di 100.000 rupie, così che tu possa intascarne la differenza”. Se per ipotesi, si fosse applicato uno sconto del 10%, chi le ha acquistate si sarebbe messo in tasca 10.000 rupie e il suo unico compito sarebbe stato di liberare l’offerente da una liquidità impresentabile. In un certo senso, la lotta al contante avrebbe redistribuito un po’ di ricchezza in India, dato che i grandi detentori di cash in nero avrebbero pagato loro concittadini meno benestanti per sbarazzarsene.
Il governo non ci ha guadagnato praticamente nulla, però. La crescita ha subito una temporanea decelerazione per la carenza di liquidità per gli scambi. Alla base di tale fallimento vi sarebbe stata la velocità con cui le banconote incriminate sono state messe fuori corso. L’India non è nuova a simili operazioni. Una “demonetizzazione” simile avvenne nel lontano 1978, ma allora a non tornare più indietro era stato il 15% del cash oggetto della misura. Se si fosse concesso più tempo agli indiani per scambiare le vecchie banconote con le nuove, molto probabilmente si sarebbe raggiunto un risultato pressappoco simile, ma a beneficio dei consumi, quindi, della crescita economica anche nel breve periodo. Perché? Le famiglie con liquidità in eccesso, rispetto a quella dichiarabile senza fare scattare i controlli fiscali, se ne sarebbero liberate attraverso acquisti di beni e servizi, magari anticipandoli per una buona parte. In questo modo, non avrebbero pagato nessuno per sbarazzarsene e avrebbero contribuito alla crescita.
Evidentemente, a Nuova Delhi è prevalsa la volontà di mostrarsi quanto più duri possibili contro evasori fiscali e criminali, ma la “ferocia” non ha pagato.