La discesa sotto 1,05 del cambio euro-dollaro rappresenta un pessimo segnale per l’Eurozona. E’ sintomatico del pessimismo dei mercati circa l’andamento della sua economia e, a sua volta, rischia di acuirne la crisi in corso. Un euro debole impatta sull’inflazione, perché aumenta il costo dei beni importati. Basti pensare al petrolio, che già di suo è rincarato in dollari. Se, poi, la valuta americana si rafforza anche, il costo della benzina s’impenna ulteriormente. La Banca Centrale Europea (BCE) si trova in trappola, signori.
Cambio euro-dollaro diretto sotto parità
Come saprete, oramai i rendimenti italiani sovrastano quelli tedeschi del 2% o poco meno. Il mercato teme che gli alti tassi a lungo possano deteriorare le condizioni fiscali dell’Italia al punto da provocare una crisi del debito sovrano. Se i rendimenti decennali americani salissero al 5% – sono già sopra il 4,80% – il cambio euro-dollaro sarebbe atteso fin sotto la parità. Gli investitori scontano in media un tasso di 0,95 per gennaio. In pratica, un drastico -10% rispetto ad oggi. Questo tracollo alimenterebbe l’inflazione, spingerebbe ancora più in alto le aspettative sui tassi e finirebbe per fare esplodere lo spread.
Tutto questo scenario potrebbe essere sventato proprio da una lotta convincente allo spread da parte della BCE. Gli strumenti a disposizione esistono già, ma non sono stati resi né automatici, né incondizionati e né illimitati. Il pregiudizio anti-italiano tiene altissime le resistenze in paesi come la Germania. Berlino teme che l’Italia, se le fosse spento lo spread, spenderebbe ancora di più e peggio e finirebbe per sconquassare i suoi conti pubblici con effetti devastanti per l’intera Eurozona.
Rendimenti Bund restano repressi
Succede che le tensioni sui BTp alimentino la fuga dei capitali verso i Bund, i cui rendimenti restano repressi. Di conseguenza, si allarga un altro spread: quello con i T-bond degli Stati Uniti. Più i rendimenti americani sono alti e più i capitali si dirigono Oltreoceano, indebolendo il cambio euro-dollaro e innescando quella reazione a catena a discapito della stabilità dei prezzi nell’area.
Cosa accadrebbe se la BCE annunciasse di non tollerare più spread rispetto ai titoli “benchmark” tedeschi superiori a poche decine di punti base? I mercati si convincerebbero che non abbia alcun senso speculare contro i bond italiani, spagnoli, ecc. Tornerebbero a comprarli, vendendo a quel punto Bund. I rendimenti tedeschi s’impennerebbero, lo spread con gli Stati Uniti si restringerebbe e il cambio euro-dollaro risalirebbe. I rischi per l’inflazione rientrerebbero all’istante. La BCE non avrebbe più bisogno di inventarsi escamotage come Quantitative Easing e PEPP per ridurre la frammentazione monetaria nell’area e avrebbe modo di agire sui tassi con maggiore efficacia.
Lotta a spread efficace contro inflazione
Non sono discussioni inedite a Francoforte. L’anno scorso, si arrivò vicini a una soluzione definitiva, ma il varo del TPI si rivelò l’ennesima occasione persa di un’area economica caratterizzata da reciproci sguardi in cagnesco, anziché da unità d’intenti. La Bundesbank non è arrivata ad oggi a capire che l’alta inflazione di questi anni è stata figlia di una politica monetaria ultra-espansiva adottata per spegnere l’incendio dello spread in Italia. Anzi, capisce fino a questo punto, ma non ne trae le conclusioni: serve spegnere definitivamente l’incendio per sventare rischi maggiori e sistemici per l’area.