E’ stata una conferenza stampa lunga, arrivata in ritardo di alcuni giorni per via dell’indisposizione per problemi di salute che la premier Giorgia Meloni ha avuto nel periodo di Natale. E sono numerosi gli spunti emersi, come sempre capita ogni anno. Dall’economia agli esteri, passando per la politica interna, le domande hanno coperto un po’ tutto lo spettro dei temi di attualità. Durante il confronto con i giornalisti in sala stampa, la premier ha fornito qualche dettaglio in più sulle privatizzazioni.
Sappiamo già che il suo governo ha previsto di incassare 20 miliardi di euro in tre anni (2024-2026) con la cessione di alcuni asset statali. Un punto di PIL che non fa male per cercare di contenere l’indebitamento pubblico e che rilancia la stagione dell’apertura al mercato per attirare capitali privati e aumentare l’efficienza gestionale.
Privatizzazioni in vista per Ferrovie e Poste
Proprio per queste ragioni, Meloni si è detta soddisfatta della vendita del 25% di Monte Paschi di Siena, che nelle scorse settimane ha permesso allo stato di incassare 920 milioni di euro. “E’ stato un bel segnale”, ha dichiarato, con evidente riferimento sia alla Commissione europea con cui l’Italia ha concordato la privatizzazione entro quest’anno, sia al mercato.
Non ci sarà, comunque, solo il restante 39% della banca senese sul piatto delle privatizzazioni. La premier ha indicato esplicitamente due aziende che potrebbero essere parzialmente cedute sul mercato. I privati entrerebbero come “soci di minoranza” in Ferrovie dello stato, mentre acquisirebbero un’altra quota “non di controllo” in Poste Italiane.
Ad oggi, Ferrovie è interamente in mano allo stato, mentre Poste fu quotata in borsa nel 2015 per circa il 35% del capitale. Il restante 65% attualmente è così suddiviso: 35% Cassa depositi e prestiti e 29,26% Tesoro. Ai prezzi di borsa attuali, se tutta la quota in mano al Tesoro fosse ceduta sul mercato, lo stato incasserebbe poco meno di 3,9 miliardi.
Dossier rete Tim caldo
Il dossier privatizzazioni sarà importante per portare una ventata di freschezza nel sistema industriale-bancario nazionale. Capitali nuovi sia italiani che stranieri a beneficio di aziende di dimensioni relativamente grandi per aumentarne potenzialmente l’efficienza e la capacità di produrre profitti. D’altra parte, Meloni ha dichiarato che lo stato dovrebbe “fare un passo indietro dove la sua presenza non serve e rafforzarsi laddove serve”, aggiungendo che “questo non significa, però, non aprire al mercato”.
In altre parole, privatizzazioni non di tutto. In questi mesi, uno dei dossier più scottanti anche sul piano politico riguarda la vendita della rete Tim al fondo americano Kkr. Lo stato sta agendo tramite CDP, presente nel capitale della compagnia con una quota inferiore al 10% e che entrerebbe nel capitale di NetCo, la società che gestisce l’asset, con una presenza nell’ordine del 20-25%. Trattandosi di una struttura strategica, probabile che dopo una fase di transizione lo stato vorrà incrementare la propria quota, tra l’altro agevolando la fusione con Open Fiber, controllata al 60% da Enel, altra società in mani pubbliche.
Cattivi ricordi sugli anni ’90
Le privatizzazioni in Italia non evocano buoni ricordi. Furono realizzate essenzialmente nella seconda metà degli anni Novanta e perlopiù servirono a fare cassa, con numerosi asset venduti a privati senza alcun piano industriale. Le inefficienze statali divennero private e in alcuni casi a crescere furono solo i debiti, come dimostra proprio il disastroso caso Tim. Poiché gli attori politici di quella stagione furono di centro-sinistra, il centro-destra si è guardato bene dal replicarne gli errori. Questa è la prima volta che, all’atto pratico, la coalizione al governo mette nero su bianco cifre e propositi concreti per la cessione di asset statali.