La previdenza integrativa in Italia fatica a prendere slancio. E questo è un dato di fatto, dimostrato dai numeri. I lavoratori si fidano poco dei gestori dei fondi pensione. O meglio faticano a rinunciare al Tfr, quel tesoretto che si accumula durante la vita lavorativa e si incassa alla fine del rapporto di lavoro. Questione di abitudine, ma anche di consapevolezza che le promesse dei gestori vengono spesso disattese. Del resto non può esservi certezza dei rendimenti futuri dei nostri risparmi quando ci si affida ai mercati finanziari.
I primi ad accorgersene subito sono stati i gestori dei fondi pensione che, dopo il crollo dei rendimenti di fine 2022 a causa del ritorno dell’inflazione, stanno correndo ai ripari per rabboccare le perdite di capitale subite. Cosa di cui i media non parlano più per non infondere timore ai risparmiatori. Ma se ne sono accorti anche i lavoratori, quelli che hanno aderito ai fondi pensione, che si sono ritrovati di colpo rendimenti scesi di oltre il 10%. Soldi che potranno essere recuperati solo con gli anni. Intanto, però, sono andati persi e se fossero rimasti nel Tfr adesso non avrebbero di che preoccuparsi.
Meno tasse sui fondi pensione per rilanciare la previdenza integrativa
Ma vediamo le novità in arrivo. Posto che in questo momento vi sia la necessità per i gestori di incrementare le adesioni nei fondi pensione con la promessa di una previdenza integrativa indispensabile e redditizia fruttuosa, si spinge sulla leva fiscale. Da quest’orecchio gli italiani, vessati da anni dal fisco, ci sentono bene.
Così Assoprevidenza ed esperti presi a prestito dalla politica stanno spingendo il governo ad adottare misure più incisive affinché siano abbattute o ridotte sensibilmente le imposte che gravano sulla previdenza complementare. Allo scopo di raccogliere più adesioni possibili. Fra i promotori e sponsor di questa iniziativa c’è anche Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, che ipotizza il passaggio attuale della tassazione dei rendimenti dei fondi pensione a un modello alternativo basato sull’esenzione fiscale dei rendimenti stessi.
Tra i nodi fiscali da sciogliere per il rilancio della previdenza complementare in Italia ci sarebbe anche quello di aumentare la deducibilità dei contributi. Al momento la deduzione è possibile fino a 5.164,57 euro all’anno di contributi versati alla previdenza integrativa. E ormai questo tetto andrebbe adeguato ai tempi.
La trappola dell’incentivo fiscale
Ma l’incentivo fiscale è solo una trappola per topi, dicono i ben informati. Benché vi siano dei vantaggi nell’immediato per il contribuente che affida i propri risparmi (Tfr) ai fondi pensione, nel lungo periodo l’inflazione rischia di mangiarsi ogni guadagno. I rendimenti dei fondi pensione a lungo termine, vero che sono in grado di mitigare la volatilità e le eventuali perdite, ma non si discostano da quelli offerti dal Tfr.
Dati alla mano, sulla lunghezza di 10 anni, non vi sono variazioni apprezzabili tali da far propendere per una scelta di questo tipo. Fanno eccezione i rendimenti dei fondi del comparto azionario, che però rappresentano un rischio elevato per chi vi aderisce. E trattandosi di investimenti che hanno come scopo quello di integrare la pensione pubblica, meglio evitare.
Come riporta la Covip, i rendimenti dei fondi pensione negli ultimi 10 anni, a causa del crac dell’autunno 2022, si sono compressi. I garantiti hanno reso poco o nulla (+0,7%), gli obbligazionari puri nulla, gli obbligazionari misti il 2,4%, quelli bilanciati il 2,7%. Solo i fondi azionari hanno guadagnato, fra alti e bassi, il 4,7%. A confronto il Tfr ha reso il 2,4% dal 2013 a oggi.
Alla lunga, quindi, il risparmio fiscale immediato del contribuente si tradurrà in un guadagno finale per i gestori. Fra commissioni di vario tipo, costi e interessi occulti, se ne andrà una discreta fetta di guadagno e quindi di rendimento finale.