Scade oggi l’ennesimo termine ultimo per trovare un accordo tra Argentina e obbligazionisti titolari di 67 miliardi di dollari di debiti da ristrutturare. Ma già da due giorni, il ministro delle Finanze, Martin Guzman, si mostra ottimista sul prolungamento delle trattative oltre la data odierna, sebbene proprio nelle prossime ore scada il periodo di grazia di 30 giorni su un titolo da 500 milioni di dollari e che avrebbe dovuto essere pagato già il 22 aprile scorso. In assenza di novità, scatterebbe da domani il “default selettivo”.
La difficile lezione dell’Argentina, vicina al nono default della sua travagliata storia
I creditori internazionali, ad eccezione di BlackRock, starebbero ammorbidendo la loro posizione sull’accordo di rinegoziazione offerto dal governo argentino. In particolare, sarebbero disposti ad accettare la tagliola, purché venga ridotto il periodo di grazia di 3 anni, durante i quali non sarebbero pagati né il capitale e né gli interessi, o almeno che venga aumentata la cedola media, che il governo vorrebbe fissare sui titoli di nuova emissione dallo 0,50% iniziale fino a un massimo del 2,3%. Oggi, la cedola media ponderata si attesta al 7%. Di fatto, la rinegoziazione imporrebbe ai creditori perdite per il 62% sul fronte degli interessi e del 5,4% su quello del capitale per perdite complessive pari a 41,5 miliardi.
E se l’Argentina piange, il Libano è disperato. In default già da marzo, il paese dei cedri ha lanciato ieri l’allarme crisi alimentare. Le importazioni di cibo, stimate in 5 milioni di dollari al giorno, non saranno coperte a lungo dalle riserve valutarie, in caduta libera. In cerca di 10 miliardi di dollari di prestiti dal Fondo Monetario Internazionale, il premier Hassan Diab prospetta il definitivo abbandono del “peg”, che dal 1997 lega la lira al dollaro a un tasso di cambio fisso di circa 1.505.
Argentina e Libano in fuga dalla realtà
Similmente al Venezuela “chavista”, anche Beirut ha adottato un sistema di cambi confuso, con quello fisso ormai utilizzato solo per le importazioni dei beni essenziali, mentre altri cinque sono stati imposti a banche, cambiavalute e società importatrici. Il governo punta alla liberalizzazione, immaginando una svalutazione a 3.500 lire per dollaro, cioè di quasi il 60% rispetto ai livelli ufficiali di oggi, ma manca il coraggio di affrontare le ire di una popolazione già stremata dalla crisi economica e, adesso, anche dalle conseguenze del Coronavirus. Non ha, però, alternative, perché senza un cambio funzionale, l’elevatissimo deficit commerciale cronico libanese prosciugherebbe i dollari delle riserve in pochi mesi e non sarebbe più possibile importare alcunché dal resto del mondo, né pagare le esposizioni con l’estero per lo stesso settore privato.
Argentina e Libano sono accomunati da una fuga dalla realtà in cui per troppo tempo sono vissuti i rispettivi governi, con politiche fiscali, valutarie e monetarie insostenibili. Nell’uno e nell’altro caso, l’intervento di sostegno dell’FMI non vi sarà fino a quando i creditori non subiranno perdite pesanti e i governi non avvieranno la ristrutturazione delle due economie. Ma né Buenos Aire e né Beirut sembrano disponibili a condurre le rispettive popolazione a una impopolare traversata nel deserto. La realtà, però, sta prendendo il rapido sopravvento, sebbene il caso del Venezuela dimostri come ciò non implichi in automatico alcuna resa dinnanzi ad essa da parte di chi governa.
Argentina e Libano mettono alla prova la credibilità del Fondo Monetario Internazionale