Questa settimana ci ha lasciati un gigante della storia. Mikhail Gorbaciov si è spento all’età di 91 anni a Mosca, capitale di quell’impero tornato ad essere “del male” con l’invasione dell’Ucraina. La sua è una vicenda al contempo affascinante e triste. All’età di 54 anni fu eletto segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS). Era il 1985 e il mondo guardava con fiducia al terzo dittatore dell’Urss in poco più di un anno. Prima di lui, i brevissimi interregni di Jurij Andropov e Kostantin Cernenko.
Ed effettivamente tutto inizia a cambiare in una sclerotica Urss, dove il tempo sembrava essersi fermato da decenni. Due le parole magiche di quegli anni: “glasnost” e “perestroika”, ossia trasparenza e riforme. Nel nome della trasparenza rese nota la tragedia dei gulag sotto Stalin. E le sue riforme miravano a salvare il socialismo, offrendo ai cittadini maggiori spazi di libertà nella vita privata, sociale ed economica. Questo era il suo intento. Ma tanto bastò in Occidente per guardare Gorbaciov come l’uomo che avrebbe smantellato il comunismo.
Dal trionfo alla caduta di Gorbaciov
Lo scetticismo iniziale fu superato quando la Lady di Ferro, Margaret Thatcher, chiamò il presidente americano Ronald Reagan per dirgli che di Gorby ci si poteva fidare. Era arrivato in visita a Londra accompagnato dalla moglie, così come era costume per un leader occidentale. Piccoli gesti che fecero la differenza. In patria, il settimo e ultimo dittatore dell’Urss lanciò un piano di riforme economiche per transitare il socialismo verso un’economia aperta al mercato “in 500 giorni”. Fu un disastro. La produzione non decollò e i prezzi esplosero, con la conseguenza che la povertà dilagava, anziché restringersi.
Pian piano, il nome di Gorbaciov suscitò sentimenti contrastanti nel mondo: amatissimo in Occidente, sempre più odiato in patria. Paradossale che possa apparire, l’uomo era rimasto vittima degli spazi di libertà concessi ai popoli sovietici. Improvvisamente, la gente comune smise di avere paura del potere politico. E sorsero le contestazioni. Gli stati satellite del Patto di Varsavia iniziarono l’uno dopo l’altro nel 1989 a sganciarsi da Mosca. Emblematica la caduta del Muro di Berlino del 9 novembre 1989. Era stata la “dottrina Sinatra” ad avere posto fine alla subordinazione verso l’Urss, così ironicamente chiamata per via della promessa non ingerenza di Gorbaciov negli affari altrui. In pratica, ognuno faceva a modo proprio (“My Way”).
Quello che Gorbaciov non aveva previsto fu la disgregazione della stessa Urss. Già nel marzo 1990 la Lituania si tirava fuori dall’unione, seguita un anno dopo da ben altre quindici repubbliche. Nel frattempo, il PCUS era diviso sulle riforme. L’ala conservatrice cospirava per abbattere il Cremlino, mentre il presidente della Federazione Russa, Boris Eltsin, reclamava riforme più radicali. Il 19 agosto del 1991, mentre Gorbaciov si trovava nella sua dacia in Crimea, un commando guidato da ministri del governo e militari ad essi vicini cercò di deporre il segretario con la falsa notizia di dimissioni per malattia. Il popolo scese in strada per opporsi al ritorno al passato e guidato da Eltsin.
La fine dell’Urss
Il golpe fallì, Gorbaciov tornava a Mosca, ma nei fatti non contava più nulla. Il potere gli si era sgretolato tra le mani. Eltsin lo umiliava pubblicamente fino ad annunciare il suo addio al PCUS. Preso atto della dissoluzione in corso dell’Urss, il 25 dicembre 1991 fu costretto a decretarne la fine, firmando le sue dimissioni da presidente.
Egli stesso era consapevole di questa “damnatio memoriae”. Negli anni successivi alle dimissioni ammise di avere commesso qualche errore, tra cui quello di essere stato troppo tollerante con Eltsin. Accusò l’Occidente di avere voluto stravincere sulla Russia senza pensare ad inglobarla in un solido sistema di relazioni diplomatiche ed economiche alla pari. In cuor suo, capì che il comunismo non fosse riformabile come aveva sperato e che la sua politica avesse gettato il bambino con l’acqua sporca, dal suo punto di vista. Una fine ingloriosa per un uomo che fece la storia e che ne rimase travolto.