Il debito pubblico italiano toglie il sonno da una trentina di anni a questa parte a tutti i numerosi governi che si sono succeduti. Può essere di destra, di sinistra, di sopra o di sotto, ma chiunque entri a Palazzo Chigi si ritrova a gestire una situazione fiscale sempre delicata. I numeri parlano da soli. L’anno scorso, pur in calo, il rapporto tra debito e PIL dovrebbe essersi attestato sopra il 146%. Due anni prima, sfiorava il 156%. La media europea giace sotto il 95%.
Impatto pandemia su conti pubblici
Il debito italiano è sempre stato considerato sostenibile, semmai politicamente un tema scottante per le ristrettezze fiscali che produce. Esistono vari indicatori utilizzati da economisti e governi per valutare la sostenibilità di un debito. Uno di questi consiste nel comparare il tasso di interesse implicito con la crescita nominale del PIL. Il ragionamento è questo: se il costo del debito risulta superiore/inferiore alla crescita dell’economia, siamo dinnanzi a una tendenza non sostenibile/sostenibile nel medio-lungo termine.
A proposito, cos’è il tasso d’interesse implicito? Il rapporto tra spesa per interessi e debito italiano. Esso ci fornisce la misura dell’effettivo costo del secondo. Dovete sapere che dalla metà degli anni Ottanta, con l’unica eccezione del 1988, l’Italia ha avuto sempre un tasso d’interesse implicito superiore alla crescita del PIL nominale (crescita reale + inflazione/deflatore). Ed è stato così fino al 2021, anno in cui le sorti si ribaltano: la differenza tra i due dati esita un risultato negativo di quasi il 5%.
Debito italiano tornato sostenibile?
Nel 2022, l’andamento favorevole si è replicato. In attesa dei dati ufficiali, il PIL nominale avrebbe sfiorato il +7% e il tasso d’interesse implicito sarebbe stato del 2,7%. Anche l’anno scorso, dunque, la differenza tra i due dati è stata profondamente negativa. La sostenibilità del debito italiano ne sta uscendo rafforzata e non diminuita, come spesso abbiamo la sensazione a seguito di errate analisi riportate dalla stampa.
Abbiamo effettuato altri calcoli, stavolta prendendo come riferimenti il tasso implicito e il deflatore del PIL. Quest’ultimo segnala l’aumento dei prezzi sul mercato domestico e che incide sulla crescita nominale del PIL. Si differenzia dall’inflazione propriamente detta, in quanto esclude i prezzi di beni e servizi importati. Abbiamo ottenuto che per la prima volta dal 1984, il tasso implicito è risultato inferiore al deflatore del PIL nel 2022. Nel dettaglio, 2,7% contro 3%. Nel 2021, il tasso implicito reale era risultato positivo dell’1,9%, nel 2020 dell’1,25%, ecc. Addirittura, nel 1993 raggiunse il record dell’8,1%.
Già quest’anno, tuttavia, potrebbe accadere che il tasso implicito reale si azzeri o torni positivo nel caso in cui la crescita dell’economia si spegnesse o andassimo in recessione. Ad ogni modo, se l’inflazione dopo la pandemia tornasse a surriscaldarsi intorno al target BCE del 2% e la stessa crescita del PIL italiano risalisse su valori almeno superiori all’1%, nei prossimi anni avremo una differenza negativa tra tasso implicito e variazione del PIL nominale.