Da qualche mese abbiamo imparato a conoscere il viso di un prima sconosciuto premier olandese, quel Mark Rutte dai tratti simili a Harry Potter, ma che a differenza del mago della saga di J.K. Rowling non ispira molte simpatie in Italia. La sua opposizione agli Eurobond e a qualsiasi aiuto/prestito incondizionato ai paesi dell’Eurozona in difficoltà per via dell’emergenza Coronavirus lo ha automaticamente posto dall’altra parte della barricata rispetto all’Italia nelle lunghe ed estenuanti trattative in UE per superare la crisi sanitaria ed economica in corso.
L’Olanda fa la dura con l’Italia, ma il Coronavirus può farla saltare in aria
Il dibattito si è arricchito con il contributo di quanti sostengono che, in fondo, dovremmo importare almeno un pezzo di quel modello. Pensate alle basse tasse? Nemmeno per sogno. Le alte aliquote e le numerose imposte da pagare sono un segno identitario, un tratto distintivo dell’italianità da tutelare contro tutto e tutti. La mente corre, invece, a quella legislazione finanziaria, che in Olanda consente ai titolari di azioni per una percentuale non inferiore al 20% di una società quotata in borsa di mantenerne il controllo contro scalate ostili e anche nei casi di fusione, acquisizione e di ricapitalizzazione. Come? Aumentando il numero dei diritti di voto, così che pesino di più.
Questo meccanismo ha spinto di recente Mediaset a fuggire in Olanda per evitare che la famiglia Berlusconi, fondatrice e azionista di riferimento del colosso delle telecomunicazioni, perda in futuro il timone dell’azienda per via di scalate ostili, come quella che qualche anno fa tentò l’ex amico Vincent Bolloré, portandosi a poco meno del 30% del capitale, la soglia oltre la quale sarebbe scattato l’obbligo di lanciare un’OPA sulle rimanenti azioni.
Dalla riforma del 2014 a oggi
Sembrerebbe, quindi, che il problema principale dell’Italia sia la scarsa difesa degli assetti proprietari nelle società di medio-grandi dimensioni. Eppure, a molti sfugge che un principio simile a quello olandese fu voluto e introdotto nel 2014 dall’allora governo Renzi con il voto plurimo e maggiorato inseriti nel Dl Competitività. Nel primo caso, i fondatori di società quotande possono decidere prima dell’IPO di avvalersi della facoltà di emettere azioni per sé, ciascuna fino a 3 diritti di voto. A conti fatti, pur riservandosi una quota di appena il 17% si avrebbe ugualmente il controllo in assemblea certo con il 51%. Con il voto maggiorato, invece, una società può decidere di emettere azioni fino a 2 diritti di voto a favore degli investitori, purché questi le posseggano per almeno 24 mesi continuativi. Un modo per premiare l’azionariato stabile.
Ecco come Renzi salva gli squattrinati capitalisti italiani col Dl competitività
Lo scorso anno, risultavano essersi avvalse di tale facoltà solo 46 aziende, mentre il numero delle quotate totali a Piazza Affari a fine 2019 era di 375, 49 in più rispetto a prima che queste norme fossero introdotte. Un aumento tondo del 15% da non sottovalutare, seppure difficilmente attribuibile alle sole novità del 2014, ma certo non si può dire che negli ultimi 5-6 anni come Italia siamo diventati una calamita per piccole aziende in cerca di una borsa in cui quotarsi a condizioni favorevoli.
Rischio boomerang
La verità è che il modello olandese, se lo prendiamo solo nella parte che più ci aggrada, rischia di rivelarsi un boomerang per il sistema Italia. E’ vero che il voto plurimo e maggiorato consentano un certo svecchiamento, tra l’altro ponendo fine a pratiche obsolete come i patti di sindacato, malvisti dal mercato e che hanno nei decenni ingessato l’assetto proprietario del nostro capitalismo relazionale. Per contro, finirebbero per acuire proprio le criticità del nostro sistema industriale, ad oggi sotto-capitalizzato, in quanto affidato perlopiù alla conduzione familiare, con pochi soggetti a detenere il controllo degli assets, non scalzabili dal mercato nemmeno nei casi di conclamata pessima gestione aziendale.
Se c’è una ragione per cui in Italia, oltre a tasse, burocrazia, scarse infrastrutture e giustizia lenta, non si investe e né arrivano capitali dall’estero è perché il nostro è percepito come un sistema produttivo bloccato, in mano ai soliti noti e senza possibilità di insidiarli per renderlo più efficiente e proficuo. Dotarci di norme che cristallizzassero un simile sistema per via normativa equivarrebbe a privare l’economia italiana persino della speranza di un futuro caratterizzato da mobilità sociale e dei capitali. Sarebbe il trionfo del “crony capitalism”, dove una cerchia ristretta di nobili, spesso decaduti, dell’imprenditoria nazionale avrebbe salvo il controllo e non dovrebbe nemmeno preoccuparsi di fingere di gestire bene le proprie aziende, perché nessun soggetto esterno potrebbe mai scalarle e controllarle.
L’Italia ha bisogno di un modello Olanda, ma nel senso di una fiscalità meno oppressiva per investitori e imprese, oltre che per le persone fisiche, di una burocrazia meno asfissiante, di una giustizia di gran lunga più veloce e di maggiori infrastrutture, specie nel Meridione, non di una normativa per garantire i soliti noti.
Lo chiamano capitalismo, ma siamo entrati nell’era del socialismo finanziario