Agosto particolarmente caldo per la piattaforma Airbnb, finita nel mirino dell’Agenzia delle Entrate e al centro di una vertenza che rischia di sollecitare una nuova sfida sul piano fiscale.

In ballo, secondo quanto riferito da Il Sole 24 Ore, ci sarebbero nientemeno che 500 milioni di euro di imposte, dovute ma non versate. I quali, di rimando, sarebbero finiti al centro di una vertenza riguardanti i proprietari per i quali l’affitto degli appartamenti non rappresenta la fonte di reddito principale.

Tutto fa capo a una legge del 2017, in base alla quale le piattaforme web figuranti come sostituti di imposta sono tenute a versare allo Stato il 21% delle trattenute. Si tratta, in sostanza, della cosiddetta cedolare secca, tratta dal denaro incassato dagli host grazie agli affitti. Sulla vicenda, secondo il quotidiano, starebbe indagando anche la Procura di Milano. Tuttavia, non sarebbe tutto qui. Un secondo fronte d’indagine, percorso dalla Guardia di Finanza, riguarderebbe infatti i proprietari degli immobili messi in affitto. E scelti dai clienti proprio attraverso la piattaforma.

L’affitto di case attraverso Airbnb è disciplinato dalla legge. L’attività dev’essere prima di tutto registrata allo Sportello Unico Attività Produttive (Suap) del Comune di residenza o, a ogni modo, quello in cui l’attività agisce. Inoltre, nel momento in cui gli ospiti vengono registrati, i loro dati devono essere obbligatoriamente comunicati presso il portale “Alloggiati”. L’applicazione della tassa di soggiorno è anch’essa obbligatoria, qualora chiaramente fosse prevista dal Comune. In caso, costituisce di rimando un obbligo il versamento della stessa. La Circolare n. 24/E/2017, inoltre, disciplina il versamento delle tasse sul reddito. In questo quadro, rientrano sia l’Irpef che la cedolare secca, entrambe previste dai redditi derivanti dagli affitti brevi.

Airbnb nel mirino del Fisco, non è un caso isolato: cosa sta succedendo

La peculiarità del caso Airbnb riguarda l’assenza, in Italia, di una figura facente capo alla piattaforma che agisca come sostituto d’imposta.

Una questione che già lo scorso anno aveva fatto discutere tanto che, il gruppo, aveva fatto scudo tramite la Corte di Giustizia dell’Unione europea, la quale aveva chiarito come l’obbligo di designare tale figura nel nostro Paese fosse in contrasto con il diritto europeo. Nel 2017, l’Italia aveva peraltro imposto ad Airbnb, Booking e altre piattaforme l’obbligo di trattenuta pari al 21%, altro punto sul quale il gruppo aveva fatto appello alla Corte di Giustizia Ue che, tuttavia, nel 2021 ha respinto il ricorso presentato. La normativa italiana, dunque, anche agli occhi dell’Europa risulta legittima, in quanto definita proporzionata piuttosto che discriminatoria. Sulla vicenda, però, si attende ancora il pronunciamento definitivo.

La questione degli affitti brevi dipenderà molto da quanto emergerà dalle conclusioni della Corte. Anche perché la regolamentazione del mercato entra spesso in contrasto con le discipline giuridiche. Questo perché lo stesso presenta modifiche e innovazioni a un ritmo piuttosto sostenuto. La stessa Airbnb ha, peraltro, nel 2020, messo in moto un portale apposito (il City Portal data tool) per rendere trasparenti i dati dei visitatori (oltre a quelli degli host) alle autorità locali, così da concertare eventuali nuove disposizioni in base all’evoluzione del mercato immobiliare. Al momento, in Italia, i ricavi da affitti brevi possono essere soggetti a Irpef: in caso di locazione breve, il 95% figurerà come imponibile, il 5% come deduzione.

Riassumendo

  • La piattaforma Airbnb sarebbe finita nel mirino del Fisco per una questione di imposte non versate pari a 500 milioni di euro;
  • già negli anni scorsi, la questione della tassazione era stata oggetto di dispute, con tanto di ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea;
  • in Italia, i ricavi da affitti brevi possono essere soggetti a Irpef o cedolare secca.