Niente rimborso e arretrati sulle pensioni, ecco cosa accade dopo la pronuncia della Consulta

Aumento delle pensioni, con tagli per quelle più alte, niente rimborso e arretrati, ecco cosa è successo dopo la pronuncia della Consulta.
2 giorni fa
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Niente rimborso e arretrati sulle pensioni, ecco cosa accade dopo la pronuncia della Consulta
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Se c’è qualcuno che dovrebbe sentirsi sollevato dalla sentenza della Corte Costituzionale sulla rivalutazione delle pensioni, quel qualcuno è il governo. Infatti, se la Consulta avesse dichiarato incostituzionale il taglio della rivalutazione delle pensioni del 2023 e del 2024, l’Esecutivo avrebbe dovuto stanziare milioni di euro per il rimborso pensioni.

Lo stesso discorso vale per le opposizioni, poiché i conti pubblici e la spesa previdenziale sono questioni che riguardano l’intero sistema paese. È chiaro, però, che nel dibattito entrino in gioco aspetti politici, e forse c’era chi sperava in un esito differente della Corte, con conseguenti aumenti e arretrati sulle pensioni.

Resta il fatto che la Consulta ha stabilito che non sussiste alcun profilo di illegittimità nell’aver penalizzato le pensioni di importo elevato mediante una riduzione dell’indicizzazione. Chi ha perso denaro, dunque, non recupererà nulla. Di fatto, sono stati tolti molti soldi ai pensionati interessati e la situazione continuerà a pesare sui loro assegni. Adesso vedremo quali sono i calcoli effettivi da fare.

Niente rimborso e arretrati sulle pensioni, ecco cosa accade dopo la pronuncia della Consulta

I tagli in questione riguardano i meccanismi di rivalutazione delle pensioni tra il 2023 e il 2024. Nel 2023, la perequazione è tornata a essere strutturata su scaglioni fissi, anziché progressivi, con fasce che, al crescere dell’importo pensionistico, determinano un taglio sempre maggiore. In particolare:

  • 100% dell’inflazione per le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo;

  • 85% per le pensioni tra 4 e 5 volte il minimo;

  • 54% per le pensioni tra 5 e 6 volte il minimo;

  • 47% per le pensioni tra 6 e 8 volte il minimo;

  • 37% per le pensioni tra 8 e 10 volte il minimo;

  • 32% nel 2023 e 22% nel 2024 per le pensioni sopra 10 volte il minimo.

Il trattamento minimo INPS, cifre, modifiche e novità da un anno all’altro

Per trattamento minimo si intende l’importo base fissato ogni anno dall’INPS per le pensioni. Nel 2023 era di 563,74 euro, nel 2024 di 598,61 euro, mentre quest’anno è salito a 603,40 euro.

In concreto, nel 2023, per le pensioni sopra i 2.254 euro al mese, è stato applicato il taglio della perequazione calcolata inizialmente al 7,3%, poi salita all’8,1% passando dal tasso di previsione a quello definitivo.

Nel solo 2023, dunque, molti pensionati hanno perso somme considerevoli. Se prendiamo ad esempio una pensione di 5.700 euro mensili (quindi superiore a 10 volte il minimo), l’aumento pieno dell’8,1% l’avrebbe portata a 6.161 euro al mese. Invece, applicando solo il 32% di quell’8,1% (quindi un incremento di 2,592%), la pensione è passata a circa 5.848 euro mensili. Significa 313 euro al mese in meno, oltre 4.000 euro all’anno di differenza.

Un taglio che prosegue imperterrito e i pensionati perdono soldi

Il problema del taglio è che i suoi effetti continuano. Il mancato aumento del 2023 è stato confermato anche nel 2024, e genera ulteriori perdite di potere d’acquisto. Riprendendo l’esempio: quella pensione, che nel 2023 si è fermata a 5.848 euro, nel 2024 ha subito un ulteriore trattamento peggiorativo, basato sul 22% del tasso di inflazione (che era al 5,4%). Se non ci fossero stati tagli, la stessa pensione sarebbe arrivata a 6.493 euro, mentre con l’aumento dell’1,188% (il 22% di 5,4%), è salita solo a 5.917 euro.

La perdita si trascina così anche negli anni successivi.

La pronuncia della Corte Costituzionale salva il governo, niente rimborso sulle pensioni

Alla luce di queste cifre, risulta evidente come la decisione della Corte Costituzionale abbia rimosso un grosso problema per il governo. Diversamente, si sarebbe dovuto provvedere al risarcimento dei pensionati penalizzati, con notevoli arretrati da restituire.

La questione trae origine dal fatto che, in base all’articolo 36 della Costituzione, la “quantità e la qualità” del lavoro devono essere “adeguatamente retribuite”. Di conseguenza, si riteneva che il medesimo principio potesse valere anche per le pensioni, considerando che importi elevati corrispondono spesso a carriere lavorative di livello alto.

Tuttavia, la Consulta ha stabilito che i tagli apportati non costituiscono un illecito, per cui non scatteranno rimborsi sui trattamenti pensionistici. È una scelta che punta a salvaguardare la tenuta del sistema e un minimo di equità sociale, poiché, secondo i giudici costituzionali, i titolari di pensioni di più elevato importo possono assorbire meglio l’aumento del costo della vita, mentre le pensioni più basse (sotto 4 volte il trattamento minimo) devono continuare a godere della rivalutazione al 100%.

Giacomo Mazzarella

In Investireoggi dal 2022 è una firma fissa nella sezione Fisco del giornale, con guide, approfondimenti e risposte ai quesiti dei lettori.
Operatore di Patronato e CAF, esperto di pensioni, lavoro e fisco.
Appassionato di scrittura unisce il lavoro nel suo studio professionale con le collaborazioni con diverse testate e siti.

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