Il dato sull’inflazione negli Stati Uniti a gennaio non è stato positivo. Prezzi al consumo in rialzo dello 0,5% mensile e del 6,4% annuo, appena in calo dal 6,5% di dicembre. Scomputando la componente dell’energia e dei generi alimentari, l’inflazione “core” risulta in crescita dello 0,4% mensile e del 5,6% annuo, giù solo dal 5,7%. Tutti dati superiori alle attese. E i mercati hanno reagito male. Borse giù e rendimenti su. In Italia, il BTp a 10 anni è salito da meno del 4,15% ad oltre il 4,20%.
Tassi FED, segnale da futures
I timori di molti osservatori sembrano trovare qualche conferma. La disinflazione in corso procede, ma a ritmi divenuti blandi dopo quelli veloci dei mesi passati. Ed era stato lo stesso Jerome Powell ad avere avvertito all’inizio del mese che verosimilmente servirà un biennio per normalizzare l’inflazione. Il governatore della Federal Reserve aveva alzato i tassi d’interesse dello 0,25% al 4,75% per l’ottava volta consecutiva. Da allora, sui mercati le aspettative sui tassi d’interesse sono salite. Leggendo il grafico sui futures, scopriamo che dall’ultima stretta americana gli investitori si attendono un apice dei tassi al 5,50% entro settembre. Prima del board di inizio febbraio, era atteso al 5%.
In pratica, i mercati scontano mezzo punto percentuale in più per i tassi americani. Ciò spiega perché il cambio euro-dollaro sia sceso dalla soglia di 1,10 raggiunta poco prima del board della Banca Centrale Europea all’1,0750 di ieri. Nel frattempo, infatti, le aspettative sui tassi nell’Area Euro sono aumentate, ma molto meno che negli Stati Uniti, ossia di neppure lo 0,20%.
Mercati si aspettano taglio dei tassi?
I rendimenti americani segnalano anche una possibile recessione in vista per la prima economia mondiale. Il T-bond a 30 anni offriva ieri il 3,78% contro il 4,79% del T-bill a 3 mesi. Lo spread tra le due scadenze risultava negativo di circa l’1%. All’inizio dell’anno, era inferiore alla metà.
Non è facile capire quale giudizio stia prevalendo e sia insito nei dati sui rendimenti a stelle e strisce. L’economia americana sembra ancora molto robusta, come dimostrano i dati sull’occupazione. Ciononostante, gli analisti scorgono una possibile recessione tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. C’è un dato da non marginalizzare: il 2024 sarà un anno elettorale. E se sembra scontato che per allora la FED avrà smesso di alzare i tassi, d’altro canto potrebbe riprendere a tagliarli per stimolare l’economia, magari su “pressioni” politiche, pur nel rispetto dei reciproci ambiti d’intervento.
Crescono timori per recessione USA
La Casa Bianca ha annunciato in settimana che rilascerà ulteriori 26 milioni di barili di petrolio delle riserve strategiche dopo i 180 milioni venduti nel 2022. La maggiore offerta, unitamente al dato sull’inflazione, ieri ha depresso le quotazioni del Brent sotto gli 86 dollari. Il problema è che le riserve strategiche americane sono già scese pericolosamente ai minimi dal 1983. Non è su questo che il governo americano potrà continuare a fare leva per ottenere un calmieramento artificioso dei prezzi a lungo.
La leva dei tassi, invece, resta fondamentale per orientare le aspettative dei mercati globali, “commodities” comprese. La stretta negli Stati Uniti tende a far scontare una minore vivacità della domanda, agendo da stabilizzatore dei prezzi. Ma queste aspettative a loro volta rifletterebbero una crescita stagnante o persino la recessione presso la principale economia mondiale.