I Pir cambiano pelle. Dopo il loro debutto con la legge di Stabilità 2017, da quest’anno avevano subito modifiche apparentemente marginali, ma che li avevano resi molto meno appetibili per i gestori finanziari, tant’è che hanno subito una sostanziale battuta d’arresto. A fronte dei 17,4 miliardi di euro raccolti nei primi due anni, infatti, nei primi nove mesi di quest’anno hanno registrato deflussi per oltre 800 milioni. I Piani individuali di risparmio sono oggetto di ulteriori modifiche in Parlamento in questi giorni, con l’obiettivo di renderli allettanti come alle origini.
Nuovi Pir 2020, ecco le modifiche apportate in Parlamento
Altra novità: potranno investire nei Nuovi Pir anche le Casse previdenziali e i fondi pensione, ma nel limite del 10% dei rispettivi patrimoni. Qual è il vantaggio propinato da banche e assicurazioni ai clienti che volessero sottoscrivere questi prodotti? Fiscale. Chi vi investe e li tiene in portafoglio per almeno 5 anni non vi pagherà l’imposta del 26% sulle plusvalenze, né dovrà sottoporli eventualmente all’imposta di successione. Un trattamento preferenziale, che li rende persino superiori agli stessi titoli di stato.
Ma è tutto oro quello che luccica? Non proprio. Per prima cosa, cosa sono esattamente i Pir? Nessuno lo sa veramente. In questi “contenitori” si trovano azioni, obbligazioni e liquidità, ma spesso non se ne conoscono le proporzioni, né gli emittenti. In un certo senso, potremmo ritrovarci a detenere debito di società che nemmeno conosciamo e senza che lo sappiamo. Certo, capita da sempre anche con i fondi d’investimento, ma qui il rischio risulta superiore per un motivo preciso: i soggetti emittenti gli strumenti finanziari acquistati dagli intermediari e inseriti nei Pir sono poco conosciuti, in quanto di piccole dimensioni, ossia anche poco monitorati dal mercato.
Rischi liquidità e costi
Per capirci, una cosa sarebbe che un fondo acquistasse obbligazioni e azioni FCA, un altro che puntasse su capitale e debito della società Mister X, di cui poco si sa. Dunque, scarsa trasparenza e – arriviamo al terzo rischio – scarsa liquidità degli strumenti sottostanti. Trattandosi di mercati di ridotte dimensioni (28 miliardi di euro il valore di capitalizzazione di tutta Piazza Affari all’infuori dell’Ftse Mib e dell’Ftse MidCap), non è facile disinvestire in fretta all’occorrenza. Che la situazione sia complicata lo dimostra anche la liquidazione di fondi già attivi sui Pir, avvenuta a metà di quest’anno, come nel caso degli Etf Lyxor e Amundi.
E che dire del fatto che, pur nati su una lodevole volontà di sostegno all’economia reale italiana, i Pir finiscano per concentrare geograficamente e in misura eccessiva i portafogli dei sottoscrittori in poche imprese italiane? Uno dei criteri-guida di qualsiasi investimento poggia proprio sulla diversificazione geografica, che qui praticamente viene capovolta per indirizzare i capitali in poche e opache realtà tricolori. E, infine, le commissioni: i vantaggi fiscali ci saranno pure, ma i costi d’ingresso e quelli legati al mantenimento del Pir si mostrano mediamente alti, rispettivamente nell’ordine di circa il 2% e l’1,5%.
Pir: con le novità in arrivo si prevede una pioggia di sottoscrizioni
Nel solo 2018, le commissioni pagate dagli 800.000 sottoscrittori sono risultate pari a 300 milioni di euro. Una montagna di denaro finita a banche e assicurazioni, che sembra alta nel confronto con altri prodotti d’investimento. E fino a quando la borsa italiana sale, è tutto ok. Quando inizia a ripiegare, se gli indici principali soffrono, quelli secondari e illiquidi rischiano di decimare i portafogli dei sottoscrittori.