Oggi è la data di regolamento del bond emesso da Pernod Ricard e suddiviso in tre tranche. Il colosso francese dei vini ha raccolto sul mercato 2 miliardi di dollari, attraverso scadenze a 7,5, 10,5 e 30 anni. Nel dettaglio, ha collocato una tranche da rimborsare in data 1 aprile 2028 per 600 milioni e con cedola 1,25%; una seconda da rimborsare in data 1 aprile 2031 per 900 milioni e cedola 1,625%; una terza da rimborsare in data 1 ottobre 2050 per 500 milioni e con cedola 2,75%.
Sulla base dei prezzi spuntati, i rendimenti si sono attestati rispettivamente a 1,307%, 1,713% e 2,88%.
I proventi netti dell’operazione verranno impiegati per scopi generali. Probabile, quindi, che la società proceda al rimborso anticipato del bond da 500 milioni in scadenza nell’aprile 2021 e di quello da 1,5 miliardi da rimborsare nel 2022. I due titoli recano cedola rispettivamente del 5,75% e del 4,45%, nettamente superiori in entrambi i casi all’1,79% medio dell’ultima emissione. Questo significa che il rimborso anticipato eventualmente abbatterebbe la spesa per interessi e migliorerebbe la situazione finanziaria della società.
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Il rischio cambio
Grazie a questa emissione, poi, è stata allungata anche la durata media del debito, passata da 6 a 7,2 anni. Quanto ai rating, parliamo di un emittente “investment grade”: BBB+ per S&P, BBB per Fitch e Baa1 per Moody’s. Siamo nella zona bassa dell’area più sicura del mercato obbligazionario, pur a ridosso di quella “junk” o “spazzatura”, la maggiormente a rischio default.
Pernod Picard è un produttore di vini e alcolici e nell’anno fiscale conclusosi nel 2020 ha fatturato circa 8,5 miliardi di euro. Nasce nel 1975 dalla fusione tra Pernod e Ricard e nei decenni si espande grazie anche ad alcune acquisizioni.
Per contro, ha dovuto corrispondere agli obbligazionisti rendimenti superiori a quelli che avrebbe spuntato con emissioni in euro. Ad esempio, il bond con scadenza ottobre 2027 e cedola 0,50% (ISIN: FR0013456431) offriva ieri meno dello 0,20%, circa 110 punti base in meno rispetto alla scadenza in dollari a 7,5 anni. In pratica, il colosso scommette su un deprezzamento del dollaro a tassi superiori rispetto agli spread tra rendimenti in dollari e in euro. Dal lato dell’obbligazionista dell’Eurozona, il rischio di avere acquistato titoli solo apparentemente remunerativi sopra la media del mercato, ritrovandosi con un capitale svalutato alla scadenza o alla previa data di disinvestimento.
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