In settimana, il Dipartimento del Tesoro americano ha inserito tre valute – il baht thailandese, la rupia indiana e il dollaro taiwanese – nella “watchlist” per la presunta manipolazione dei tassi di cambio effettuata dalle rispettive banche centrali ai danni dell’economia americana. Franco svizzero e dong vietnamita, invece, sono stati definiti formalmente manipolati, cioè resi appositamente deboli contro il dollaro per aumentare le esportazioni verso gli USA. Il baht della Thailandia ha reagito ieri guadagnando oltre due terzi di punto percentuale e scendendo a un tasso di cambio sotto 30 contro il dollaro, ai massimi dall’aprile 2013.

In altre parole, la valuta thailandese non è mai stata così forte come da oltre 7 anni e mezzo.

In pratica, analisti e trader stanno scontando una politica monetaria meno espansiva di Bangkok per non incorrere nelle sanzioni commerciali di Washington. E dire che già oggi la banca centrale tiene i tassi a livelli nettamente superiori all’inflazione. Se questa si è attestata al -0,41% a novembre, il costo del denaro resta fissato allo 0,50%, praticamente quasi l’1% in termini reali. Bassissimi i rendimenti sovrani lungo la curva: appena all’1,21% per la scadenza a 10 anni, in discesa dall’1,43% di inizio anno; allo 0,44% per il titolo a 2 anni, in calo dall’1,12%.

Perché il debito della Thailandia rende poco e attira molti capitali?

Fattore cambio critico

Chi ha scommesso sul debito thailandese nei mesi scorsi, oggi può portare a casa risultati soddisfacenti, specie in tempi di rendimenti nulli o negativi. Il baht contro il dollaro ha guadagnato il 5,6% da fine settembre e poco più dell’1% da inizio anno. Certo, il bilancio contro l’euro diventa negativo: -10% quest’anno. Tuttavia, il trend contro il dollaro va preso in considerazione per valutare l’andamento futuro del cambio e, di riflesso, del debito thai. Probabile che la debolezza del dollaro spinga le valute emergenti nei prossimi mesi, specie se la reflazione attesa negli USA non venisse accompagnata da una politica monetaria meno accomodante e la Federal Reserve tollerasse tassi d’inflazione superiori al 2% per un certo periodo di tempo, così come si è impegnata a fare nei mesi scorsi, tra l’altro promettendo di non alzare i tassi USA fino a tutto il 2023.

Per quanto bassissimi siano i rendimenti di Bangkok, restano positivi sia nominalmente che in termini reali. Tanto basterebbe al mercato per fiutare l’affare. Del resto, i rating sono “investment grade”: BBB+ per S&P e Fitch, Baa1 per Moody’s, sostanzialmente migliori dell’Italia. E nel 2019, il rapporto debito/PIL aveva chiuso poco sopra il 42%, meno di un terzo dei livelli di casa nostra. Peraltro, la ripresa dell’economia globale sosterrebbe il baht, dato che la Thailandia è una potenza esportatrice e per i due terzi in valore vende nel resto dell’Asia. Un cambio più forte, però, accentuerebbe la deflazione in corso, costringendo prima o poi la banca centrale a tagliare i tassi, finendo per rinvigorire ulteriormente i prezzi obbligazionari.

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