La guerra ucraina ha interrotto i bruschi cali sui mercati obbligazionari maturi, che andavano avanti da mesi per effetto dell’accelerazione dei tassi d’inflazione. La ricerca di porti sicuri ha spinto gli investitori a preferire, in questa fase, i bond sovrani al posto delle azioni. Ma non è andata bene a tutti. I mercati emergenti stanno soffrendo le tensioni, con i bond di paesi come Egitto e Turchia a risentirne particolarmente.

Il rischio default percepito per Ankara è salito ai massimi dalla crisi finanziaria mondiale del 2008.

I titoli che assicurano contro un evento creditizio avverso, i cds a 5 anni, sono arrivati a costare quasi 680 punti base. Il rendimento a 10 anni in lire è esploso sopra il 26%. D’altronde, a febbraio l’inflazione turca è salita al 54,4%, la più alta da 20 anni a questa parte.

Anche in Egitto registriamo le medesime tensioni. I cds si sono impennati nelle ultime settimane e JP Morgan ritiene che il cambio debba deprezzarsi dell’8,5% a 17,25 contro il dollaro. L’istituto cita alcuni fattori-chiave come l’aumento dei costi dell’energia e dei generi alimentari, così come il prevedibile calo delle presenze turistiche russe quali determinanti per un impatto negativo sull’economia domestica.

Bond Egitto giù, raggiunta soglia di stress

Il bond dell’Egitto con scadenza 30 aprile 2040 e cedola 6,875% (ISIN: XS0505478684) denominato in dollari è sceso dagli 81,50 centesimi di metà febbraio ai meno di 65 lunedì scorso. Ieri, risultava risalito a 70 centesimi, offrendo un rendimento lordo superiore al 12%. Lo spread con il Treasury a 20 anni sfiora i 1.000 punti, una soglia che allerta generalmente circa l’elevato livello di stress finanziario. In effetti, sempre JP Morgan crede che Il Cairo debba richiedere presto aiuto al Fondo Monetario Internazionale per ottenere l’ennesimo prestito in pochi anni.

E pensare che appena due mesi fa, PineBridge Investments e Renaissance Capital prevedevano guadagni del 17% quest’anno per i bond dell’Egitto dopo il 13% medio messo a segno nel 2021.

A differenza della Turchia, i livelli d’inflazione qui sono relativamente contenuti, al 7,3% a gennaio, praticamente un po’ meno degli USA. Resta il fatto che le tensioni geopolitiche remino contro l’economia domestica, sebbene le esportazioni di petrolio incidano per un quarto del totale e per il 3% del PIL. Dato il boom delle quotazioni, almeno in parte il paese nordafricano riuscirebbe ad attutire la congiuntura negativa a livello internazionale.

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