La famiglia Aponte e la famiglia Onorato hanno annunciato di avere raggiunto un accordo per il salvataggio in extremis del Gruppo Moby, posseduto dalla seconda. La prima, a capo del Gruppo MSC (Mediterranean Shipping Company), entrerà nel capitale della società, in amministrazione controllata da quasi due anni, con una quota di minoranza. L’iniezione di denaro fresco – l’ammontare non è stato reso noto – consentirà a Moby di evitare il fallimento e salva 6.000 posti di lavoro.

Si chiude così una vicenda iniziata nei primi mesi del 2020, quando Moby non fu in grado di onorare gli interessi su un prestito revolving da 260 milioni di euro e il pagamento della cedola 7,75% delle obbligazioni 15 febbraio 2023 (ISIN: XS1361301457).

Questo bond fu emesso nel 2016 per l’importo di 300 milioni e si aggiunge ai 180 milioni di debiti che la società ha nei confronti dello stato per il mancato pagamento di 180 dei 380 milioni di Tirrenia dopo la privatizzazione del 2008.

Obbligazioni Moby in forte recupero

All’annuncio dell’accordo, le obbligazioni Moby sono schizzate da 58 a 70 centesimi, segnando un rialzo di oltre il 20%. Ai prezzi attuali, comunque, il bond continua ad offrire un rendimento lordo alla scadenza di quasi il 60%, segno che il mercato sconti un elevato rischio di ristrutturazione, vale a dire il rimborso parziale del capitale. Il tribunale di Milano aveva assegnato alla società tempo fino alla fine di marzo per presentare un piano per la controllata Tirrenia.

Tra i principali possessori delle obbligazioni Moby troviamo i fondi Soundpoint Capital, Cheyenne Capitale e York Capital. Resta da vedere se questi titoli subiranno una qualche rinegoziazione. Sempre il giudice, ad esempio, aveva fissato il pagamento dei 180 milioni verso lo stato all’80% e in 4 rate entro il 2025. A gennaio, l’armato Vincenzo Onorato e Beppe Grillo furono iscritti nel registro degli indagati della Procura di Milano con l’ipotesi di reato di “influenze illecite”.

L’imprenditore versò alla società editoriale del comico genovese 120.000 euro tra il 2018 e il 2019, ufficialmente in cambio di contenuti redazionali (pubblicità), ma che i giudici inquirenti sospettano fosse una sorta di mazzetta per ottenere favori dal Movimento 5 Stelle al governo.

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