Nei primi 11 mesi del 2019, in Italia risultano essere stati creati 310 mila posti di lavoro. Il tasso di occupazione nel novembre scorso è stato del 59,4%, pari a 23 milioni 486 mila unità. Si tratta di un record da quando l’Istat ha iniziato le rilevazioni nel 1977. E questa sembra essere un’ottima notizia per un’economia affamata di lavoro come l’Italia. Certo, se avessimo gli stessi livelli di occupazione medi dell’Eurozona, gli occupati sfiorerebbero i 27 milioni, cioè vi sarebbero altri 3,5 milioni di lavoratori.
Tornando al dato nazionale, c’è qualcosa che non convince e non da oggi. In termini percentuali, il numero degli occupati è salito nei primi tre trimestri del 2019 dell’1,33%, mentre il prodotto interno lordo (in sigla, pil) è rimasto sostanzialmente fermo, aumentando realmente dello 0,1% rispetto ai primi nove mesi del 2018. Sembra una contraddizione. Se più persone lavorano, la produzione nazionale dovrebbe crescere. Come mai non accade? La risposta è semplice e al contempo drammatica: i nuovi occupati ricoprono in misura crescente posizioni poco produttive e/o lavorano a tempo parziale.
Lavoro in Italia: più occupati ma sottopagati e in fuga all’estero
Se allarghiamo lo sguardo all’ultimo quinquennio (2015-2019), ci accorgiamo che la crescita reale dell’economia italiana (+4,75%) coincide perfettamente con quella dell’occupazione (+1,064 milioni di unità). Dunque, i nuovi posti di lavoro creati sono stati in linea con la produttività media del nostro mercato del lavoro, ma negli ultimi tempi si registrerebbe una discesa, cioè chi trova lavoro perlopiù o ricopre mansioni poco qualificate e/o poco produttive o non a tempo pieno. La torta sostanzialmente rimane la stessa, ma viene suddivisa in fette più piccole tra più persone. Questo non solo è indice di un’economia che non cresce, ma annuncia ai lavoratori una cattiva notizia: i loro stipendi resteranno fermi.
Salari fermi, anche in futuro
Sì, perché il salario tende a crescere sulla base della produttività marginale. Quando questa ristagna, esso non sale. E va da sé che una variazione del pil nulla o di pochi decimali, a fronte di un aumento percentuale più veloce del numero degli occupati, denoti una produttività marginale calante e non certo in crescita. Chiamatela pure “gig economy”, per alcuni l’era del precariato. Fatto sta che l’impatto del Jobs Act sembra sia stato positivo nel creare posti di lavoro altrimenti rimasti vacanti (o in nero), ma alla lunga non abbia sostenuto la crescita della produzione, come sin dall’inizio avevamo avvertito.
Stipendi italiani destinati a restare fermi, lo dicono questi dati
La sola flessibilità del lavoro non basta a trainare l’economia, semmai crea maggiori opportunità per chi è fuori dal mercato del lavoro, ma da sola non può fare miracoli se la tassazione rimane la stessa o persino aumenta, la burocrazia mastodontica non si tocca, i comparti economici non vengono liberalizzati realmente, gli investimenti infrastrutturali languono, i tempi della giustizia sono biblici e la legislazione scoraggia la libertà d’impresa. Attenzione, meglio questo milione e passa di occupati in più in cinque anni. E chissà quanti di questi nuovi lavoratori siano da collegarsi alle minori resistenze dei disoccupati nell’accettare lavoretti poco qualificati, un po’ per bisogno, un po’ perché scoraggiati dalle prospettive future.
Tuttavia, strumentalizzare da un lato o dall’altro i dati sul mercato del lavoro sarebbe imperdonabile. La scarsa occupazione, specie al sud, e redditi bassi e fermi da troppi anni rappresentano le maggiori inquietudini degli italiani, che spesso sfociano in aperta critica al sistema politico-istituzionale. Propinare loro che mai così tante persone come ai giorni d’oggi abbiano lavorato nel nostro Paese sa di offensivo, perché se il dato in sé è certamente veritiero, dietro di esso se ne celano altri poco confortanti sullo stato effettivo di salute della nostra economia.