L’ultimo rapporto dell’OCSE sulle pensioni dal titolo “Pensions at a glance” conferma le criticità del sistema previdenziale italiano. La prima riguarda l’elevato livello di spesa, al 16,3% del PIL nel 2021, il secondo tasso più alto tra i paesi avanzati monitorati. Ed è un dato che conosciamo benissimo da decenni. A poco sono valse le frequenti riforme per ritardare l’uscita dal lavoro e abbassare gli importi degli assegni. Eh, già! Il nostro, rileva l’organizzazione con sede a Parigi, è un paese in cui il pensionamento anticipato continua ad essere garantito senza alcuna penalità.
In pensione a 71 anni
A fronte di questa annotazione, ve n’è un’altra che fa riflettere. Dopo la Danimarca, l’Italia è il paese in cui i giovani lavoratori di oggi andranno in pensione più tardi. Per l’esattezza, il primo assegno lo riceverebbero a 71 anni di età contro i 74 dei loro colleghi danesi, da questo punto di vista ancora più sfortunati.
Come dire che sulle pensioni l’Italia fa figli e figliastri. Trova sempre modi possibili per dribblare l’età pensionabile, fissata ad oggi a 67 anni, dimenticando che in futuro le nuove generazioni dovranno attendere fino a oltre 70 anni per uscire dal lavoro. Un’incoerenza che si spiega – questo l’OCSE evidentemente non lo dice – con la necessità della politica di raccattare consenso guardando all’oggi e fingendo di ignorare cosa accadrà tra qualche decennio.
Incoerente aggancio ad aspettativa di vita
C’è un’annotazione che ci riguarda e che dà ragione a quanti ritengono assurdo il sistema congegnato dalla legge Fornero e ribadito anche con tutti gli interventi legislativi successivi: l’aggancio dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. L’OCSE riscontra che l’Italia fa parte dei nove paesi che adottano questo meccanismo, ma rileva che non trovi alcuna giustificazione con l’applicazione del metodo contributivo.
Capiamo meglio. Con il metodo contributivo, che si applica per intero a tutti coloro che hanno iniziato a versare contributi dal 1996, l’assegno è determinato esclusivamente sulla base di quanto versato e degli anni residui di vita. In altre parole, se mi ritrovo un montante contributivo di 300 mila euro, percepirò un assegno più alto di un altro lavoratore della mia stessa età e con un montante più basso. Tuttavia, se decido di uscire dal lavoro qualche anno prima, l’assegno mi si abbassa tramite i coefficienti di trasformazione. Viceversa, mi aumenta se ritardo il pensionamento.
Che senso ha legare l’età pensionabile all’aspettativa di vita, essendo già insito nel calcolo dell’assegno il disincentivo ad uscire prima dal lavoro? Per essere chiari, con il metodo contributivo l’impatto sui conti pubblici dell’età a cui si va in pensione è alla lunga nullo. Prima esco dal lavoro e meno prendo. Secondo l’OCSE, questo meccanismo sarebbe stato studiato per disincentivare ulteriormente l’uscita anticipata dal lavoro ed evitare che il futuro pensionato percepisca un assegno così basso da dover richiedere assistenza allo stato o vivere altrimenti in condizioni di indigenza.
Pensioni più tardi e più alte
Infine, un altro appunto di non poco conto. E’ vero che i giovani di oggi andranno in pensione più tardi dei loro colleghi stranieri. Tuttavia, l’importo medio che percepiranno è stimato all’83% dell’ultimo assegno contro una media OCSE del 61%. Dunque, faremo qualche sacrificio in più e in cambio avremo un assegno relativamente più alto. Dove sta l’inghippo? Se ad essere basso fosse proprio lo stipendio medio percepito nel corso della carriera professionale, i futuri pensionati rischierebbero comunque di percepire importi inadeguati.
In altre parole, la legislazione italiana inizia a costruire i tetti delle case senza preoccuparsi di verificare che prima siano stati effettuati gli scavi per le fondamenta e ci siano i pilastri a sorreggerli.