Se non è un’altra Lehman Brothers, poco ci manca. Credit Suisse è stata apparentemente salvata dalle autorità svizzere grazie alla fusione con UBS, ma i mercati finanziari si mostrano poco convinti della bontà dell’operazione. Un crac che sta costando carissimo all’Occidente e per capirne le cause scatenanti bisogna ripercorrere le ultime tappe di una vicenda tutt’altro che conclusa. Era mercoledì 15 marzo quando il CEO della Banca Nazionale Saudita, Ammar al-Khudairy, escludeva categoricamente che l’istituto da lui guidato avrebbe immesso in Credit Suisse capitali freschi.
Regia cinese in Medio Oriente
Soltanto pochi mesi prima, la Banca Nazionale Saudita partecipava alla ricapitalizzazione di Credit Suisse da 4 miliardi di franchi, salendo a una quota del 9,88%. L’investimento da 1,4 miliardi è stato travolto dalla crisi in borsa del titolo e dopo l’offerta di UBS vale meno di 300 milioni. Non che la crisi della banca svizzera sia stata provocata dalle parole dei sauditi, ma queste hanno sorpreso un po’ tutti in Occidente per la loro imprudenza in una fase delicata, così come ha stupito il fatto che Riad abbia sostanzialmente rinunciato a difendere il proprio investimento a distanza di brevissimo tempo.
Disse una volpe della politica italiana, sette volte premier e ministro di tutto Giulio Andreotti, che “a pensar male si fa peccato, ma a volte s’indovina”. E nel Medio Oriente è in corso una rivoluzione negli assetti geopolitici. Pochi giorni fa, gli emissari di Arabia Saudita e Iran si sono incontrati a Pechino, sotto gli occhi vigili della diplomazia cinese, per avviare la normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Re Salman ha invitato ufficialmente il presidente iraniano Ebrahim Raisi in visita nel regno per la prima volta dopo venticinque anni.
Arabia Saudita e Iran sono arci-nemici all’interno del mondo mussulmano.
Sauditi rompono con Biden
La Repubblica Islamica è nata nel 1979 su un’ideologia ferocemente contraria all’Occidente e ai suoi costumi. Al contrario, l’Arabia Saudita è stata amica per la pelle degli Stati Uniti. In cambio delle esportazioni di petrolio in dollari, ha ricevuto tutela militare dall’esercito americano. E in Medio Oriente un amico serve sempre come l’aria. Questo rapporto vantaggioso per entrambe le potenze si è rotto con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca. Il democratico è stato un critico del principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS), accusato di violare i diritti umani. In campagna elettorale, arrivò a definire il suo regno “uno stato paria”.
Che le relazioni fossero ai ferri corti, lo dimostravano ampiamente in questi ultimi due anni le mancate risposte di MBS alle chiamate al telefono di Biden. Questi ha sollecitato ripetutamente un abbassamento del prezzo del petrolio aumentando l’offerta dell’OPEC. Riad ha risposto picche e nell’ottobre scorso, addirittura, annunciava persino un leggero taglio della produzione del cartello. In pratica, l’America di Biden ha quasi perso definitivamente il rispetto dei sauditi, i quali hanno siglato di recente un accordo con i cinesi per vendere loro petrolio in yuan.
Finora sono stati solo piccoli segnali di un amore finito. Con Credit Suisse sembra esserci stato il salto di qualità. Riad esce in avanscoperta per segnalare la propria sfiducia verso una delle principali banche sistemiche dell’Occidente.
Asia in fuga da Occidente
E non è solo questione di Credit Suisse. Solo tra Arabia Saudita, Qatar e Abu Dhabi ci sono 3.500 miliardi di dollari gestiti da fondi sovrani. Si tratta di capitali investiti perlopiù proprio in Occidente, ma che nei prossimi anni potrebbero prendere tutt’altra direzione. D’altra parte, non ci sono solo risentimenti verso gli americani alla base di questo cambio di vedute. Riad e le altre capitali mediorientali hanno perso fiducia nell’Occidente dopo avere appreso che questi usa la finanza dollaro-centrica come un’arma contro quelli che di volta in volta sono individuati come “nemici”. Con l’invasione dell’Ucraina, circa 300 miliardi di dollari delle riserve valutarie russe sono stati congelati da Nord America ed Europa. In precedenza era capitato qualcosa di simile al Venezuela di Nicolas Maduro e all’Afghanistan con il ritorno al potere dei talebani.
Se il dollaro è un’arma, allora bisogna minimizzarne la minaccia facendone il più possibile a meno. Come? Aprendosi nuove rotte per gli affari e i commerci e riducendo i rischi geopolitici per i quali si è resa negli ultimi decenni indispensabile l’amicizia con gli Stati Uniti. Non esiste ancora un’alternativa al dollaro, ma d’altra parte stiamo ragionando come se gli stati asiatici, in particolare, se ne stiano stando con le mani in mano. Invece, a parte diversificare le valute per l’import-export, le banche centrali stanno puntando maggiormente sull’oro per accrescere le proprie garanzie in condizioni di stress finanziario.