Il Testo Unico della Finanza (T.U.F.) del 1998, di recente riformato dal “Decreto Competitività” del 2014, fissa le condizioni alle quali è obbligatorio il lancio di un’Offerta Obbligatoria di Acquisto (OPA) sulla totalità delle azioni di una società. Ciò è previsto, quando con l’acquisizione del capitale azionario, un soggetto si trovasse a detenere una partecipazione non inferiore al 30%. A quel punto, esso è obbligato ad offrire al resto degli azionisti la possibilità di vendere le azioni da loro detenute a un prezzo “equo”, che viene stabilito in un livello minimo non inferiore a quello più alto offerto dallo stesso offerente nei dodici mesi precedenti, oppure, in assenza di previa offerta, non inferiore al prezzo medio ponderato delle azioni compravendute sul mercato negli ultimi dodici mesi.
Il Dl del 2014 ha modificato, come detto, tale disciplina, consentendo tra le altre cose alle società con un patrimonio in superiore a determinati livelli di potere prevedere nello statuto una quota variabile dal 25% al 40%, oltre la quale scatterebbe l’OPA obbligatoria, “in assenza di altro socio che detenga una partecipazione più elevata”.
Azionisti minoranza, cosa ci guadagnano
La ratio dell’obbligatorietà dell’OPA consiste nel consentire anche agli azionisti di minoranza di partecipare ai benefici derivanti dal lancio di un’offerta, che chiaramente avverrà sempre a prezzi superiori a quelli vigenti sul mercato, al fine di stimolare la vendita dei titoli da parte dei detentori attuali.
Si stima, infatti, che quando un soggetto arrivi a detenere almeno il 30% delle azioni di una società, di fatto ne diventi un controllore. Ecco, quindi, che i soci più piccoli dovrebbero avere il diritto di uscire dall’azionariato, vuoi perché non ritengano di volere rimanere sotto il nuovo controllante, vuoi anche perché vorrebbero approfittare di un prezzo di offerta superiore a quello vigente in borsa e vendere.