L’inflazione erode il potere di acquisto delle famiglie italiane. Lo sappiamo e lo ripetiamo da molti mesi, da quando i prezzi al consumo hanno iniziato a lievitare a ritmi che non si vedevano da una quarantina di anni. Alcuni rincari appaiono esagerati o perlomeno non più giustificati dall’andamento dei costi delle materie prime. Si pensi alla pasta, quando il prezzo della farina sui mercati internazionali si è quasi dimezzato da picchi raggiunti nel marzo dello scorso anno. La categoria che maggiormente patisce gli aumenti dei prezzi è quella dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, oltre che naturalmente degli inoccupati.
Calcolo TFS diverso da TFR
Il TFS è l’acronimo per Trattamento di Fine Servizio. Nel linguaggio popolare, è la famosa buonuscita o liquidazione quando i dipendenti pubblici vanno in pensione. Funziona similmente al TFR erogato ai dipendenti del settore privato. Le modalità di calcolo, tuttavia, differiscono un po’. Nel caso di un privato, il TFR si calcola prendendo le buste paga percepite nell’anno, tredicesima inclusa ed eventuale quattordicesima, e suddividendo l’importo ottenuto per 13,5. Questo importo viene annualmente rivalutato per il 75% del tasso d’inflazione di dicembre più un margine fisso dell’1,50%.
Nel caso del TFS, si prende la retribuzione annua lorda e la si suddivide per 12. Questo importo va moltiplicato per il coefficiente 0,80. Infine, il risultato va moltiplicato ancora per gli anni di servizio. Facciamo un esempio. Un insegnante va in pensione e nel suo ultimo anno di servizio ha percepito una retribuzione annua lorda di 35.000 euro, tredicesima inclusa.
Liquidazione TFS fino a 36 mesi
C’è un problema. L’INPS non versa la somma subito dopo che il dipendente pubblico, nel nostro caso un insegnante, va in pensione. E questa è una differenza notevole con il dipendente privato, a cui il datore di lavoro deve erogare il TFR entro 45 giorni (un mese e mezzo!). Per qualche assurda ragione, il dipendente pubblico dovrà attendere 90 giorni per il disbrigo della pratica da parte dell’ente. Dopodiché dovrà attendere altri 12 mesi (un anno!) per ottenere la liquidazione. Ma, attenzione, se la somma da percepire supera i 50.000 euro, la parte eccedente sarà erogata dopo altri 12 mesi, cioè dopo 24 mesi (due anni!). Se supera i 100.000 euro, la parte eccedente questa soglia sarà erogata dopo altri 12 mesi, cioè 36 mesi in tutto (tre anni!).
Va così dal 2014. Il centro-destra ha presentato una proposta che punta a ripristinare le regole attive fino a quell’anno, quando l’attesa massima per i dipendenti pubblici era di 105 giorni, tre mesi e mezzo del tutto ragionevoli. Ebbene, se questa è una stortura nota da ormai quasi un decennio, in pochi ci siamo interrogati sul danno provocato dall’alta inflazione. Supponiamo che un dipendente pubblico sia andato in pensione con un TFS di 120.000 euro dopo 40 anni di servizio nell’aprile del 2020. Possono sembrare tanti, ma sono soldi a cui il beneficiario ha diritto e che attende da una vita. Magari aveva programmato di acquistare casa per un/a figlio/a o di investire per incassare un reddito extra durante la vecchiaia.
Inflazione colpisce buonuscita dipendenti pubblici
Nel 2020 non c’era neppure il sentore d’inflazione. Anzi, con la pandemia inizialmente i prezzi erano spesso persino scesi. Non al supermercato, s’intende.
E’ corretto che il TFS sia pagato così in ritardo anche con un’inflazione alle stelle? E più generalmente, è corretto che lavoratori che magari si ritrovano ad andare in pensione a 67 anni o più debbano attendere fino a 36 mesi per percepire l’intero importo? Pensate che nel caso di quota 100/102/103, l’attesa è molto più lunga. Il beneficiario deve, anzitutto, attendere la maturazione dei 67 anni di età. Insomma, a risparmiare è l’INPS che versa ai dipendenti pubblici un TFS deprezzato rispetto a qualche anno prima. Chi ci rimette è il solito pantalone.