La vicenda Credit Suisse non si è conclusa, ma già possiamo affermare che la Svizzera non ne stia uscendo benissimo sul piano dell’immagine. Era da mesi che il colosso bancario traballava sui mercati, tanto che aveva avuto bisogno di una maxi-ricapitalizzazione alla fine dell’anno passato. Le autorità elvetiche avevano ostentato sicurezza fino a poche ore prima di intervenire per evitare il crac. Ma il peggio è arrivato con il salvataggio perseguito attraverso la fusione con UBS. La rivale domestica acquisirà Credit Suisse per pochi spiccioli, ossia 3 miliardi di franchi, a sconto del 60% sul valore di mercato delle azioni.
Errori nella crisi bancaria
Un salasso per l’istituto centrale, seppure a fronte di immense riserve valutarie accumulate negli ultimi anni grazie all’enorme afflusso di capitali esteri nel paese alpino. Il punto è che la Svizzera in questa crisi bancaria non si è comportata all’altezza della sua fama. Per il resto del mondo, questo angolo minuscolo d’Europa è sinonimo di perfezione – non a caso gli orologi a cucù li esportano loro – osservanza delle regole e ricchezza. Tutto si può dire, tranne che la crisi di Credit Suisse sia stata gestita con estrema precisione.
Mentre gli azionisti riceveranno pur sempre il 40% del valore di mercato del titolo prima dell’annunciata fusione con UBS, gli obbligazionisti subordinati subiranno perdite totali. Un ribaltamento delle gerarchie nell’assorbimento del capitale, che già rischia di tradursi in una class action contro la nuova entità che nascerà dall’integrazione tra le due banche. I bond AT1 azzerati valgono 16 miliardi di franchi. Nessuno ha capito con quale criterio siano stati salvati in parte i soci per fare ricadere le perdite interamente sui creditori. Va bene che i primi avevano da poco partecipato a una ricapitalizzazione dagli intenti salvifici, ma il sacrificio imposto agli obbligazionisti appare iniquo a queste condizioni.
Finanza in Svizzera non più così sicurissima per tutti
La Svizzera è un hub finanziario globale. Attira capitali dal resto del mondo per la sua storica salvaguardia del segreto bancario, pur affievolito negli ultimi anni su pressione dei governi europei. E a parte possedere una legislazione finanziaria molto evoluta e liberale, la neutralità geopolitica ha fatto il resto. Nessun investitore ha avuto paura a portare i propri capitali nel paese da qualsiasi parte del mondo provenga. E’ noto, infatti, come il principio “pecunia non olet” raggiunga il suo culmine proprio in una confederazione mai schierata con o contro questo o quel paese.
Qualcosa è cambiato, però, con l’invasione russa dell’Ucraina. Le autorità confederali hanno “congelato” i beni degli oligarchi russi, di fatto partecipando alle sanzioni occidentali contro la Russia. Questo potrebbe avere effetti negativi di lungo periodo per la Svizzera, la cui capacità di continuare ad attirare capitali da aree del pianeta sensibili sul piano geopolitico è adesso minacciata. Per il resto d’Europa, l’opportunità di rilanciare la propria finanza a caccia di nuovi flussi di capitali.
Dopo la Brexit, molte sedi di banche, fondi e assicurazioni sono state trasferite da Londra ad Amsterdam. L’Olanda ha approfittato più degli altri stati comunitari dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Ma anche la nostra Milano se n’è avvantaggiata, attirando investitori in cerca di una città non solo per lavorare, ma anche capace di garantire uno standard di vita gradevole. Ma piazze come Parigi, Francoforte e la stessa Milano rimangono anni luce indietro alle roccaforti finanziarie per via di legislazioni molto meno favorevoli e di una tassazione affatto leggera.
Europa più appetibile dopo Credit Suisse?
Dopo il pasticcio della Svizzera, però, qualcosa può cambiare a nostro favore.
La spia dell’eventuale perdita di rilevanza globale per la finanza elvetica sarà il franco svizzero. Il cambio resta fortissimo, segno che per il momento non esisterebbe alcun deflusso dei capitali dalla Svizzera a favore di aree come l’Unione Europea o gli Stati Uniti. Ma parliamo di tendenze di lungo periodo. Dopo il crac chiacchierato potrebbe non essere così scontato che il paese alpino continui ad essere considerato un “porto sicuro” al 100% per i capitali mondiali.