“Non ci sono pericoli che possa essere ripresentato (il Patto di stabilità, ndr) nella stessa forma di prima”. Parole del premier Mario Draghi, pronunciate mercoledì alla Camera dei Deputati in sede di replica alle comunicazioni in vista del Consiglio europeo. Egli ha aggiunto che la discussione durerà per tutto il 2022 e un accordo tra gli stati comunitari sarà possibile solo agli inizi del 2023.
Se Draghi si è spinto fino a rassicurare il Parlamento sul mancato ritorno alle stesse regole fiscali dell’era pre-Covid, evidentemente ritiene che non sarà smentito dai fatti.
La situazione fiscale dopo la pandemia
Con la pandemia, il Patto di stabilità è stato sospeso per il 2020 e successivamente anche per il 2021 e il 2022. La sua applicazione, salvo nuove proroghe, tornerà ad esservi nel 2023. Tuttavia, tutti i capi di stato e di governo hanno chiaro lo scenario alquanto mutato a causa del Covid, ma che nei fatti ha acuito una tendenza già in atto nel corso dell’ultimo decennio. Il debito pubblico è salito mediamente sopra il 100% del PIL nell’Eurozona e diversi stati si collocano su percentuali nettamente superiori: Grecia, Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Cipro.
Di fatto, il Mediterraneo annega nei debiti e ripristinare una regola per cui questi debbano scendere entro 20 anni al 60% del PIL sarebbe da un lato un modo per rimettere in riga le capitali meno fiscalmente ordinate, dall’altro appare un esercizio velleitario. Chi crede che realisticamente uno stato come la Francia o l’Italia possa tendere a tale rapporto entro un paio di decenni? I fatti post-2008 hanno dimostrato che accumulare debiti su debiti è facile e richiede pochissimo tempo, mentre abbatterli è politicamente ed economicamente molto difficoltoso.
Dunque, sarà un rompete le righe? Assolutamente no. Il Patto di stabilità sarà certamente ripristinato, non fosse altro per il desiderio del Nord Europa di ottenere rassicurazioni sostanziali circa il futuro fiscale nell’area. Ma tornare all’impostazione pre-Covid appare obiettivamente difficile. Nessun governo nel Sud Europa, Francia inclusa, sarebbe oggi nelle condizioni di rispettare le previsioni sulla discesa del rapporto debito/PIL. Quale fisionomia assumerebbe il nuovo testo? Possibile che si porrà l’accento sul deficit-limite. Fatta salva l’inviolabilità della soglia del 3%, sulla base delle condizioni fiscali nazionali ai singoli stati verrebbero probabilmente assegnati limiti differenti di anno in anno.
Quale nuovo Patto di stabilità
In soldoni, questo potrebbe essere un punto d’intesa: gli stati dell’Eurozona s’impegnerebbero a non aumentare i rispettivi rapporti tra debito e PIL. Questo implica, anzitutto, che ogni governo debba tenere presente il disavanzo massimo (entro il limite del 3%), oltre il quale il grado d’indebitamento salirebbe. Poiché ciò si tradurrebbe paradossalmente in margini fiscali più ampi per gli stati più indebitati, è verosimile che il nuovo Patto di stabilità preveda la fissazione di un Delta per tendere a una discesa costante delle percentuali di debito. Ad esempio, se sulla base del tasso di crescita nominale atteso per il PIL, il deficit-limite in Italia fosse in un dato anno del 2% e se il Delta venisse fissato allo 0,5%, il disavanzo fiscale non dovrebbe superare l’1,5%.
Nella sostanza, non sarebbe granché diverso dal funzionamento del Patto di stabilità fino al 2019, sebbene l’eliminazione formale del riferimento tendenziale al debito del 60% allenterebbe la pressione sugli stati, ai quali verrebbe semplicemente richiesto di sfoltire un po’ il rapporto debito/PIL di anno in anno, ma senza porsi un obiettivo di lungo termine ormai irrealistico.