Uno dei massimi esperti di previdenza in Italia, Alberto Brambilla, tra l’altro autore di Itinerari Previdenziali, ha proposto nei giorni scorsi quella che parte della stampa ha definito sommariamente Quota 92: 67 anni di età per andare in pensione, ma con almeno 25 anni di contributi. Nello schema avanzato, il lavoratore godrebbe di maggiore flessibilità in uscita, potendo andare in quiescenza dai 63/64 anni fino ai 72 anni. Se si ritirasse dal lavoro prima dei 67 anni, andrebbe incontro a penalizzazioni sull’assegno. Se ritardasse l’uscita dopo tale età, avrebbe diritto ad incentivi monetari.
Boom spesa pensioni con invecchiamento demografico
La spesa per le pensioni nel nostro Paese si aggira intorno al 16% del Pil e nei prossimi anni è attesa culminare al 17%. Qual è il problema? I contributi versati dai lavoratori non bastano già oggi a coprire gli esborsi dell’Inps. In futuro, il rischio è che si rivelino ancora meno sufficienti, a causa della denatalità e dell’invecchiamento demografico. In pratica, da decenni nascono pochi bambini in Italia e l’allarme culle vuote è diventato gravissimo. Questo significa che, in prospettiva, i lavoratori che pagheranno i contributi saranno sempre meno. Al contempo, il numero dei pensionati crescerà con l’uscita dal lavoro della generazione dei cosiddetti “baby boomers“. Si tratta di coloro che nacquero dagli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Settanta.
E il patto intergenerazionale? I sistemi pensionistici pubblici nell’Occidente furono sviluppati grosso modo dopo la Seconda Guerra Mondiale. In quel periodo storico, le nascite abbondavano e i pensionati rappresentavano una percentuale risibile dell’intera popolazione. I governi pensarono bene di mettere su programmi previdenziali basati sul seguente principio: i contributi dei lavoratori avrebbero pagato gli assegni dei pensionati.
Fregatura storica ai danni delle attuali generazioni
Giustamente, i lavoratori che oggi pagano una montagna di contributi, pretendono che le loro pensioni in futuro siano adeguate e di poter andare in pensione ad una età non eccessivamente elevata. Avrebbero perfettamente ragione se ragionassimo di un sistema privatistico, dove sussiste un legame diretto tra contributi e rendita. Ma il sistema pubblico non funziona così. I contributi versati non possono essere investiti sui mercati a favore di una rendita pensionistica quanto più elevata possibile, in quanto servono a pagare le pensioni di oggi.
E’ qui che il patto intergenerazionale si è rotto e che segnala la fregatura storica imposta dai governi ai danni delle attuali generazioni. La scarsa lungimiranza ha spinto a credere che le variabili macroeconomiche e demografiche sarebbero rimaste inalterate per sempre. Si è creato un sistema andato a beneficio alle generazioni del passato, scaricandone i costi su quelle future. Smantellarlo appare tecnicamente difficile, se non impossibile. Immaginate di passare tutti improvvisamente ad un sistema privatistico, per cui i lavoratori inizierebbero a versare i contributi soltanto per sé stessi. Chi pagherebbe le pensioni di oggi? Lo stato attingerebbe alla fiscalità generale più di quanto non faccia già, ma finendo per dover aumentare le imposte su redditi, consumi e patrimoni in misura soffocante. La pressione fiscale dovrebbe esplodere nei paraggi del 60% del Pil. L’economia collasserebbe.
Patto intergenerazionale, crisi senza soluzione
Il patto intergenerazionale è diventata una gabbia senza chiave. E nessuno lo ha realmente sottoscritto, nel senso che i governi hanno deciso, pur legittimati dal voto popolare, di sequestrare il futuro delle generazioni successive seguendo un modello di pensiero rivelatosi fallace.