La riforma pensioni resta un traguardo sempre più lontano per il governo Meloni. L’impossibilità di affrontare il tema è più una questione economica che politica. La spesa pensionistica è in rapido aumento, non tanto per il numero di lavoratori che ogni anno lasciano il lavoro, ma per i conti dovuti alle deroghe finora introdotte per evitare la Fornero.
C’è poi il nodo rivalutazioni degli assegni che, con l’inflazione che non accenna a fermarsi, tende ad appesantire il bilancio dello Stato.
Cosa succederà dopo Quota 103
Il ritorno integrale alle regole Fornero è quindi sono una questione di tempo. Con la fine di Quota 103 al 31 dicembre di quest’anno, resteranno solo le vie ordinarie di pensionamento. Cioè a 67 anni di età o con 41-42 anni e 10 mesi di contributi a prescindere dall’età. Salvo le deroghe previste da Ape Sociale per persone svantaggiate che probabilmente saranno rinnovate. Mentre non si sa che fine farà Opzione Donna, già fortemente ridimensionata nei requisiti di accesso.
Il tavolo negoziale aperto a inizio anno con in sindacati per discutere di possibili riforme in tan senso è al momento sospeso e non si sa quando riprenderà. Nel frattempo è stato istituito l’Osservatorio sulle pensioni presso il Ministero del Lavoro per monitorare attentamente la spesa. Organo che quindi suggerirà cosa fare man mano che arrivano i dati dall’Inps.
Quota 41, su cui insiste la Lega, è allo stesso modo in ghiacciaia sempre per motivi economici: costa troppo. Così sullo sfondo della scena è ricomparsa da alcuni giorni la possibilità di introdurre un sistema flessibile in uscita, come suggerito dall’Inps già lo scorso anno.
La proposta Inps per uscire a 63 anni
Ma in cosa consiste la proposta del presidente Inps Pasquale Tridico? Si tratterebbe, in buona sostanza, di una pensione flessibile, concessa in due tempi diversi. Vale a dire, una prima parte di pensione sarebbe liquidata subito, al raggiungimento dei 63 anni, ma a valere solo sui versamenti effettuati nel sistema contributivo (quelli maturati dal 1996 in poi). La seconda parte di pensione, invece, al raggiungimento dei 67 anni, a valere sulla restante parte dei versamenti effettuati prima del 1996 cioè nel sistema di calcolo retributivo.
La soluzione avrebbe il merito di mantenere in equilibrio i conti dell’Inps con una spesa contenuta e non si andrebbe a penalizzare il lavoratore la cui decisione di andare in pensione a partire da 63 anni resterebbe comunque volontaria. In altre parole il sistema di calcolo della pensione mista verrebbe sdoppiato e liquidato separatamente. Così lo Stato risparmierebbe perché dal sistema duale scaturirebbe una penalizzazione per il pensionato che accetta di andare in pensione prima.
In pensione a 63 anni
Resterebbe solo da capire quale sarà il requisito contributivo minimo. Posto che per andare in pensione a 67 anni bastano 20 anni di contributi, quanti ne servirebbero per uscire a 63? Finora tutte le soluzioni anticipate varate dai vari governi, da Quota 100 a Quota 103, prevedono un requisito contributivo più alto. Anche Ape Sociale che altresì prevede l’uscita a 63 anni richiede come minimo 30 anni di versamenti.
E’ quindi ipotizzabile che se si dovesse arrivare a una soluzione, così come suggerito dall’Inps, ci sarebbe un vincolo di anzianità contributiva da rispettare. Cosa che limiterebbe il diritto a molti lavoratori che magari a 63 anni di età non hanno ancora un numero sufficiente di contributi per ottenere la pensione in due tranches.
Ovviamente una pensione anticipata a 63 anni, anche nel rispetto della soglia contributiva minima, implicherebbe comunque una leggera penalizzazione. L’importo sarebbe parametrato all’età del lavoratore che godrebbe di una rendita parziale ridotta rispetto a quella prevista a 67 anni per la vecchiaia.