Le pensioni crescono meno dell’inflazione e il potere di acquisto si erode. Chi non l’avesse ancora capito, il meccanismo di svalutazione degli assegni è subdolo e ben oliato dal sistema che gratta un po’ di qua e un po’ di là per contenere la spesa pensionistica che ha raggiunto livelli elevatissimi.
D’altra parte se la tanto attesa riforma pensioni fatica a decollare è solo per una questione di costi. Così come si farà fatica a pagare le pensioni future, la maggior parte delle quali corrisposte in tutto o in parte grazie a interventi assistenziali non più sostenibili a lungo.
Il costo delle pensioni continua a salire
Secondo il decimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, sono numerosi i trattamenti pensione assistiti dallo Stato. Nel 2021 risultavano in pagamento 4,1 milioni di pensioni interamente assistenziali (invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra). E ulteriori 7,04 milioni di prestazioni tipicamente assistenziali (integrazioni al trattamento minimo, maggiorazioni sociali, importo aggiuntivo e quattordicesima mensilità). Per un costo totale annuo di oltre 21,7 miliardi di euro.
Di fronte a questo scenario economico andato ormai fuori controllo, la spesa pubblica dell’Inps è salita senza freni col rischio che, di questo passo, l’Istituto – come dice il presidente Pasquale Tridico – registri nel 2029 un patrimonio negativo di 92 miliardi di euro. Soldi che dovremmo pagare tutti con più tasse.
Così non resta che tagliare sulle pensioni in pagamento. Ritardando e tagliando le rivalutazioni degli assegni. Come puntualmente sta accadendo. Vediamo nello specifico come funziona il trucco.
Le rivalutazioni negate
Tutti sappiamo che con la legge di bilancio 2023 sono state finora rivalutate le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo. Cioè fino a 2.101 euro lordi al mese. Oltre tale cifra bisognerà attendere il mese di marzo quando saranno corrisposti gli aumenti per tutti, comprensivi degli arretrati di gennaio e febbraio.
Ritardi che si traducono puntualmente in denaro che lo Stato risparmia ogni giorno. Del resto coi tassi di interesse che girano oggi sul mercato, tenere fermi per un paio di mesi centinaia di milioni di euro non può che giovare al debitore.
Oltre a ciò, da quest’anno lo Stato non riconosce più la rivalutazione piena delle pensioni sopra i 2.152 euro. In base allo schema introdotto dal governo Meloni per fasce di reddito, le rivalutazioni diminuiscono all’aumentare dell’assegno. Al punto che chi prende più di 5 volte il trattamento minimo, cioè oltre 2.690 euro al mese (circa 2.000 al netto delle imposte) si ritrova una rivalutazione dimezzata. Come se per questi pensionati l’inflazione fosse magicamente diventata la metà. Ma non è così.
Le fasce di rivalutazione delle pensioni
In altre parole chi percepisce importi di pensione medio alti (non stiamo parlando di pensioni d’oro o d’argento) pagherà il conto dell’inflazione in base alle nuove fasce di rivalutazione stabilite dallo Stato. Lo schema delle rivalutazioni 2023 è il seguente:
- 100% fino a 4 volte il trattamento minimo;
- 85% da 4 a 5 volte il trattamento minimo;
- 53% da 5 a 6 volte il trattamento minimo;
- 47% da 6 a 8 volte il trattamento minimo;
- 37% da 8 a 10 volte il trattamento minimo;
- 32% oltre le 10 volte il trattamento minimo.
E’ del tutto evidente che, ragionando sui grandi numeri, lo Stato risparmia un sacco di soldi sulle tasche dei pensionati. Cosa peraltro ingiusta se si pensa che le pensioni in pagamento sono frutto di contributi versati, anni di lavoro e sacrifici.
Pensioni e inflazione
Ma non è solo questo che bisogna considerare per capire come lo Stato abbia dato un colpo al cerchio e uno alla botte ai costi previdenziali. Le pensioni fino a 2.101 euro al mese da gennaio sono aumentate del 7,3%. Da dove salta fuori questa percentuale? Siamo sicuri che è quella giusta?
Il tasso di rivalutazione è stato decretato dal Mef nel novembre 2022, in via provvisoria, sulla scorta della media dell’aumento dei prezzi al consumo relativi ai primi 10 mesi dell’anno.
Niente di preoccupante, la legge prevede che la differenza fra il dato provvisorio (7,3%) e quello definitivo che sarà comunicato in primavera sia recuperata. Ma non subito, bensì a partire da gennaio 2024. Ben 12 mesi più tardi. Intanto, però, l’inflazione continua a correre e il potere di acquisto dei pensionati si sta erodendo col tempo.