Dopo quota 100, sulle pensioni esiste una sola certezza: il ritorno alla legge Fornero. I partiti fingono di non capire e di litigare sulle spoglie di accorgimenti tecnici varati negli anni per mitigare l’impatto sui lavoratori della riforma di fine 2011, ma le cose stanno così. Tutti i lavoratori, salvo le eccezioni che saranno individuate con norme specifiche, potranno lasciare il posto di lavoro a 67 anni, siano essi uomini e donne. E l’età pensionabile salirà ulteriormente nei prossimi decenni. In alternativa, serviranno 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, indipendentemente dall’età anagrafica.
Non solo. Gli anni di servizio partire dall’1 gennaio 2012 saranno calcolati con il metodo contributivo per andare in pensione. Significa che il futuro pensionato percepirà per quel periodo in avanti un assegno legato esattamente ai contributi versati. Ancora prima, con la legge Dini, coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995, andranno in pensione con il contributivo puro.
Pensioni basse, giovani in trappola
In media, si calcola che gli assegni con il contributivo risulteranno nettamente più bassi di quelli calcolati con il metodo retributivo. Ancora oggi, il tasso di sostituzione, vale a dire il rapporto tra primo assegno e ultima retribuzione percepita, per un lavoratore dipendente del settore privato supera il 70%. Nel 2050, si stima che si attesterà sotto il 60%. Andrà peggio ad artigiani e commercianti, i quali scenderebbero al 45%, oltre 20 punti in meno rispetto al 2010.
Per i giovani di oggi, questo significa che dovranno lavorare più anni per percepire lo stesso importo garantito finora ai loro genitori. In alternativa, dovranno accontentarsi di un assegno più leggero. E se questa previsione avesse effetti depressivi sui consumi? Negli anni Cinquanta, l’economista italiano Franco Modigliani formalizzò una teoria del “ciclo vitale” e per la quale fu insignito del Premio Nobel per l’Economia nel 1984.
I redditi risultano tipicamente più bassi dei consumi durante la prima e la terza fase, più alti durante la seconda. Tuttavia, l’individuo tenderebbe a stabilizzare i propri consumi nell’arco della propria esistenza, risparmiando nei periodi in cui gode di un reddito congruo, in previsione dei periodi in cui i suoi redditi saranno verosimilmente più bassi di quelli di cui avrà bisogno. Questa teoria è stata tirata in ballo negli ultimi anni per spiegare il flop dei tassi negativi a sostegno della ripresa economica: poiché i risparmi non fruttano come prima, le famiglie sono costrette a risparmiare ancora di più per mantenere inalterato il proprio benessere durante la vecchiaia. Così facendo, riducono la domanda e “raffreddano” i tassi di crescita del PIL.
L’impatto del contributivo sui consumi
Possiamo escludere che un tale comportamento avvenga anche in previsione di pensioni più leggere? Se tutti sappiamo che con il contributivo puro avremo assegni modesti e insufficienti per vivere dignitosamente la vecchiaia, nei prossimi decenni saremo costretti a risparmiare in misura consistente per non rischiare una terza età da fame. Ciò provocherebbe bassi consumi, ovvero anche bassi tassi di crescita dell’economia. Ma i giovani italiani hanno un problema forse ancora più grave: la modestia dei loro salari non permette loro di risparmiare adeguatamente, tant’è che accantonano davvero pochissimo, se non nulla, in favore della previdenza integrativa. E questo implica un rischio ancora più dannoso per l’economia, cioè aspettative pessimistiche per il futuro, tali da incidere negativamente sulle proprie abitudini di consumo e investimento.
Non stiamo sostenendo che il contributivo sia un danno e non stiamo elogiando le pecche assai note del retributivo.