Se il Pil crolla, le pensioni future scendono. Pochi lo sanno, ma il meccanismo di rivalutazione del montante contributivo è agganciato all’andamento dell’economia. E per il 2020 il crollo sarà almeno del 9%, secondo le stime degli economisti.
Come noto, la riforma delle pensioni del 1995, fatta dal governo Dini prevede che il montante contributivo si rivaluti in base all’andamento del Pil. Non tutto il montante, ma solo la parte che ricade nel sistema di calcolo contributivo. Cioè per i contributi versati dal 1996 in poi.
Pensioni e variazione negativa del Pil
Finora non ci si è mai preoccupati di questo aspetto perché il Pil, a parte la crisi del 2008-2009, non è mai stato negativo. E anche perché le pensioni, in passato, venivano liquidate per la maggior parte dei casi col il sistema retributivo.
Oggi che il Pil è crollato e che le pensioni si liquidano col sistema misto, è bene preoccuparsi. La legge prevede che i contributi versati sono annualmente rivalutati in base all’andamento della crescita nominale del prodotto interno lordo degli ultimi 5 anni (il cd. tasso di capitalizzazione). Pertanto, le variazioni negative del Pil di quest’anno non impatteranno sul montante contributivo per i prossimi due anni. Ma inizieranno a farsi sentire a partire dal 2023, per cui chi andrà in pensione da quella data in poi dovrà mettere in conto una diminuzione della propria pensione.
Una clausola anti recessione per le pensioni
Il governo ha però deciso di intervenire per salvaguardare le pensioni, ma non subito. Benché ci siano degli ammortizzatori alle rivalutazioni delle pensioni (decreto Poletti), la botta negativa sul Pil di quest’anno si farà sentire in futuro. Gli effetti negativi verranno spalmati su più anni, il che significa che i contributi versati verranno erosi nel tempo.
I costi di un intervento pubblico per sterilizzare gli effetti negativi del Pil sulle pensioni – ha detto la ministra al Lavoro Nunzia Catalfo – valgono circa 2,5-3miliardi di euro.
La salvaguardia delle pensioni potrebbe costare 3 miliardi
A parere degli esperti del Mef, il problema dell’impatto della recessione sugli assegni pensionistici futuri non si porrebbe prima del 2022 (e neppure con certezza). Perché l’attuale salvaguardia non eviterebbe la “penalizzazione” ma la rinvierebbe comunque sotto forma di decurtazione delle rivalutazioni positive degli anni successivi a partire dal 2023.
Visto che chi andrà in pensione nel 2022 non farebbe di fatto in tempo a subire “penalizzazioni”. Nessuna necessità di agire subito, quindi. E il rinvio eviterebbe anche di mettere in allarme a Bruxelles, sempre vigile sull’andamento della nostra spesa pensionistica.
Il coefficiente di rivalutazione
Secondo i tecnici dell’esecutivo, attualmente la norma del 2015 (legge 109 di conversione del dl 65), che prevede la salvaguardia da un effetto recessione sul coefficiente di rivalutazione del montante contributivo, sarebbe dunque valida anche per i pensionati che usciranno dal mercato del lavoro nel 2021.
“il coefficiente di rivalutazione del montante contributivo, come determinato adottando il tasso annuo di capitalizzazione, non può essere inferiore a uno, salvo recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive”.
Il provvedimento era stato adottato dall’esecutivo Renzi in vista di una media quinquennale negativa che si sarebbe determinata sull’anno 2015 (-0,2% in termini nominali; -0,4% in termini reali) a seguito della seconda recessione innescata dalla crisi dei debiti sovrani del 2011-2012.
Si fissò pari a uno il tasso annuo di capitalizzazione in caso di valore negativo dell’indice alla base del meccanismo di valorizzazione dei montanti contributivi e, per conseguenza, delle pensioni, che è in vigore dalla riforma Dini (legge335/1995).