Pensioni e riforme: ma ai giovani non pensa nessuno? Ritratto di un Paese in declino

Tutti che si preoccupano di mandare in pensione i lavoratori al più presto, ma nessuno che pensa ai giovani che dovranno in qualche modo garantire le loro rendite.
2 anni fa
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Tutti che si preoccupano di andare in pensione il più presto possibile. Come se il lavoro fosse diventato una maledetta costrizione dalla quale fuggire a spese dello Stato. Del resto con i salari più bassi d’Europa diventa difficile convincersi del contrario.

Così, alla vigilia del nuovo anno le discussioni sulla riforma pensioni si fanno sempre più fitte. Tutti sembrano sforzarsi per cercare una soluzione che eviti il ritorno integrale alla Fornero con la fine di Quota 102. E se non fosse per i vincoli di bilancio imposti da Bruxelles, avremmo già fatto l’ennesima riforma ai danni dello Stato.

Cioè delle future generazioni.

Riforma pensioni e giovani lavoratori

Si parla tanto di nuove generazioni, di futuro, di ripresa economica, ma vedere i vari partiti che si scannano per conservare diritti e privilegi non è per niente incoraggiante. La riforma pensioni 2023 sarà probabilmente un compromesso, un ritocco sulle spalle dei giovani lavoratori.

Già, perché arrivati a questo punto, con un debito pubblico astronomico e una spesa previdenziale che sfiora il 16% del Pil, è pacifico che il conto lo pagheranno figli e nipoti. Qualunque esso sia. Anzi, già lo stanno facendo.

Siamo un Paese per vecchi, privo di visione futura e di speranza. I giovani non hanno lavoro, sono spesso costretti a migrare all’estero per cercare occupazione. La fuga dei cervelli è un fenomeno che caratterizza più l’Italia che altri Paesi Ue. Così come la disoccupazione giovanile che sfiora il 30% con punte che al Sud arrivano al 58%.

Di fronte a questo scenario la classe politica italiana cosa fa? Si preoccupa delle pensioni retributive dei lavoratori, ma non di chi dovrà mantenerle a fatica con lavori precari, saltuari e spesso malpagati.

Disoccupazione giovanile alle stelle

Recentemente l’Istat ha diffuso i dati sull’occupazione giovanile che resta elevatissima. Siamo il Paese con il più alto numero di giovani dai 15 ai 34 anni senza lavoro.

La maggior parte sono al Sud. Un record europeo che non può che farci vergognare dalla testa ai piedi.

A contribuire a questo scandaloso primato ci si è messo di mezzo pure il reddito di cittadinanza, inventato dal Movimento 5 Stelle per vincere le elezioni nel 2018. Altra tegola che non aiuterà a risollevare l’Italia dalle disgrazie sociali a cui siamo ormai abituati da anni.

Ma quel che più allarma sono i Neet, giovani che non lavorano, non studiano, né sono in formazione. Una percentuale altissima, più del 50% fino a 29 anni di età. Poi ci sono quelli che per necessità o per disperazione, dopo aver conseguito un titolo di studio, spesso una laurea, sono costretti ad emigrare.

Nell’ultimo anno l’Italia ha persolo 0,5% della popolazione residente e ogni sforzo dei governi per riportare in patria i cittadini o i cervelli è finora stato inutile. In valore assoluto sono quasi 154 mila nuove iscrizioni dei giovani all’AIRE negli ultimi 12 mesi.

Chi pagherà le pensioni?

A questo punto una domanda sorge spontanea: chi pagherà le pensioni dei lavoratori di oggi? Se i giovani non sono occupati o vanno all’estero, chi rimane a sostenere i conti dell’Inps? Pasquale Tridico, presidente dell’Istituto lo ha detto e ridetto più volte:

un sistema pensionistico di una popolazione di 60 milioni di abitanti non si può reggere nel lungo periodo con 23 milioni di persone che lavorano. Nel nostro Paese mancano circa 10 milioni di lavoratori tra scoraggiati, inattivi, donne e giovani che non lavorano”.

Parole sante che inducono a una profonda riflessione da parte di governo e Parlamento. In sostanza non si può pensare di garantire ancora pensioni anticipate a chi lavora oggi senza incoraggiare e incentivare l’occupazione giovanile.

I ragazzi dovrebbero essere stimolati a venire in Italia a lavorare, non a scappare in Germania, Svizzera o altri Paesi europei solo perché qui da noi le politiche salariali sono a livello di terzo mondo.

Per non parlare delle tasse che non incentivano di certo a sbattersi per lavorare o fare carriera.

Il fallimento di Quota 100

Emblematico è l’esperimento (fallito) di Quota 100 per stimolare l’occupazione. Lungi dal creare quel milione di posti di lavoro tanto strombazzato dalla Lega, il prepensionamento a 62 anni di età non ha creato nemmeno la metà dei posti di lavoro promessi.

La riforma è stata mal gestita perché si è permesso alle aziende di ridurre la forza lavoro a carico dello Stato senza ricambio generazionale. Non solo. Inizialmente si era pensato di destinare i risparmi derivanti da Quota 100 a una riforma pensioni per i giovani. Ma pare che le risorse disponibili (poche) siano state dirottate verso un fondo nazionale per il prepensionamento per assicurare l’uscita a 62 anni fino al 2024.

Mirco Galbusera

Laureato in Scienze Politiche è giornalista dal 1998 e si occupa prevalentemente di tematiche economiche, finanziarie, sociali

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