Quota 100 per i dipendenti pubblici ha pesato sulla riforma pensioni. Il governo non lo dice apertamente, ma si capisce che gli statali rappresentano un problema per i conti dello Stato.
Non tanto perché le loro pensioni sono pagate dalla generalità dei lavoratori privati. Quanto per il fatto che l’età media di chi lavora nella pubblica amministrazione è talmente alta (54 anni in media) che ulteriori anticipi pensionistici aprirebbero ampi spazi di fuga difficilmente gestibili in maniera ordinata.
La fine di quota 100 frega gli statali
Finora, il pensionamento anticipato a 62 anni, alla luce dei fatti, è stato più utile agli statali che ai lavoratori del settore privato.
In quasi tre anni, i lavoratori che hanno avuto accesso alla pensione con quota 100 sono stati 341.128. I dipendenti che hanno beneficiato di quota 100 sono stati 273.519, di cui 166.282 del settore privato e 107.237 del settore pubblico. Mentre i lavoratori autonomi sono solo 67.609.
In pratica quasi un lavoratore su tre che ha sfruttato quota 100 proviene dalla pubblica amministrazione. Cosa significa questo? Significa che i dipendenti pubblici sono più prossimi alla pensione di quelli privati.
Per i privati restano gli scivoli
Con la fine di quota 100 si è voluto quindi mettere un freno alla fuga dalla pubblica amministrazione. Giacché il settore privato continuerà a beneficiare degli scivoli previsti dai contratti di espansione, dall’isopensione e dai contratti di solidarietà.
Se per i dipendenti privati nel 2022 ci sarà la possibilità di sfruttare gli scivoli fino a 5 anni (isopensione) e quindi mantenere la possibilità di uscita a 62 di età, per gli statali sarà un incubo. Anche perché, come abbiamo visto, l’età media dei dipendenti pubblici è sopra la media Ue.
Non c’è dubbio, quindi, che il governo abbia lavorato a fondo per frenare la fuga degli statali a 62 anni.