Dal prossimo anno le pensioni saranno un po’ più leggere. Lo ha stabilito il governo con apposito decreto datato 1 giugno 2020 recependo le disposizioni di legge sulla revisione triennale dei coefficienti di trasformazione.
Dal 1 gennaio 2021, in pratica, i coefficienti di trasformazione eroderanno il montante contributivo per chi andrà in pensione. A stabilirlo è una vecchia legge dello Stato, quella varata nel 1995 dall’allora presidente del Consiglio Lamberto Dini che aggancia la rivalutazione dei contributi versati dal 1996 in poi all’andamento del Pil nazionale.
Come si rivaluta il montante contributivo
La rivalutazione del montante contributivo di ciascun lavoratore, cioè di tutti i versamenti effettuati durante la carriera lavorativa, è legata all’andamento economico del Paese. In altre parole se il Pil aumenta, crescerà anche l’assegno pensionistico, ma se scende il valore della pensione si adeguerà. Finora eravamo abituati a una crescita interminabile e costante nel tempo, ma il legislatore negli anni ’90 aveva già previsto che ciò non sarebbe durato all’infinito. E infatti le crisi economiche del nuovo secolo hanno interrotto la sequenza positiva con la conseguenza che i contributi versati non si sarebbero più rivalutati come in passato. E maggiore è la parte di contributi versati col sistema contributivo, maggiore sarà l’erosione dell’assegno futuro.
Come si calcola la pensione
Stando alla riforma Dini, infatti, il montante contributivo accumulato dal 1996 in poi è soggetto a rivalutazione media quinquennale legata all’andamento del Pil. In fase di liquidazione della pensione, l’Inps o altro ente di previdenza, applicherà quindi un coefficiente al montante, detto anche coefficiente di trasformazione, calcolato appunto sulla variazione media della crescita economica del Paese. Per il 2019-2020 questo coefficiente è pari al 5,60% per chi decide di lasciare il lavoro a 67 anni, cioè al raggiungimento dei requisiti di vecchiaia (il valore scende al decrescere dell’età di pensionamento). Dal 2012, viene aggiornato ogni tre anni e il prossimo aggiornamento è previsto a partire dal prossimo anno quando verrà recepita anche la variazione del Pil negativo.
I nuovi coefficienti di trasformazione
Dal 1 gennaio 2021 il coefficiente di trasformazione subirà un taglio. Lo ha stabilito il governo con decreto datato 1 giugno 2020. La forbice dei coefficienti, che oscillava da 4,20% in corrispondenza dei 57 anni a 6,513% per chi accedeva a pensione con 71 anni, dal prossimo anno si abbassa infatti tra 4,186% e 6,466 per cento. Per effetto, il taglio delle quote contributive oscilla tra uno 0,33% in corrispondenza dei 57 anni di età, uno 0,4767% per i 65 anni di età, fino ad arrivare a un taglio dello 0,7216% per chi accede alla pensione con 71 anni di età. Tradotto in soldi, si tratterà di poche decine di euro al mese in media per un impiegato che andrà in pensione di vecchiaia a partire dal prossimo anno con il sistema di calcolo misto.
Il taglio delle pensioni
Ma torniamo alla rivalutazione del montante e ai coefficienti di trasformazione. Posto che la crescita dei Pil italiano sarà negativa o nelle migliori delle ipotesi anemica per i prossimi anni, a quanto potrebbe ammontare la riduzione dell’assegno nei prossimi anni? Secondo le simulazioni degli esperti, la perdita di rivalutazione del montante nella parte contributiva potrebbe sfiorare il 2,5%, con una perdita potenziale del 1,6% rispetto a quest’anno su una pensione di vecchiaia con 15 anni di contributi versati prima del 1996. Fatto 1.000 l’importo dell’assegno, si tratterebbe di 16 euro al mese. Ma è evidente che, per effetto delle previsioni di crescita economica negativa a causa della crisi, il passare del tempo non gioca a favore dei futuri pensionati che potranno solo sognare gli assegni percepiti dai loro predecessori. A meno che il legislatore non intervenga per salvaguardare gli interessi dei lavoratori. Ma con un debito pubblico alle stesse, quanto spazio di manovra ci sarebbe?