Pensioni, indicizzazione legata ai salari e non all’inflazione: ecco perché sarebbe più equo

Le pensioni dall'anno prossimo verranno indicizzate all'inflazione in misura maggiore sopra i 1.500 euro lordi mensili. Si tratta di un sistema corretto o nasconde ingiustizie ai danni di alcune categorie?
6 anni fa
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Il governo giallo-verde non reintrodurrà la vecchia indicizzazione delle pensioni prevista dalla legge 388 del 2000, ma nemmeno estenderà quella degli anni passati, stabilendo per l’anno prossimo una rivalutazione piena degli assegni fino a 3 volte il minimo (a 1.530 euro lordi al mese) e una parziale, ma più benefica per i pensionati rispetto all’attuale normativa in scadenza a fine mese, per gli importi superiori. Ad oggi, gli assegni tra 3-4 volte il minimo vengono rivalutati del 95% rispetto al tasso d’inflazione dell’anno precedente, del 75% per quelli tra 4-5 volte il minimo, del 50% tra 5-6 volte e del 45% per gli assegni di importo superiore alle 6 volte il minimo.

I risparmi previsti per l’anno prossimo si aggirano sui 200 milioni rispetto al ripristino della vecchia legislazione, salendo fino a 900 milioni nel 2021.

Debito pubblico e pensioni, il cocktail letale che l’Italia continua a voler bere 

Le pensioni sono da anni al centro del dibattito politico infuocato, prima per via dell’introduzione della legge Fornero, successivamente per le varie misure correttive di tale riforma, tese a rendere più flessibile l’uscita dal lavoro per centinaia di migliaia, se non di milioni, di persone, specie in una fase così poco favorevole dell’economia italiana. In primavera, farà il suo debutto l’ormai famosa “quota 100”, il cui costo atteso per l’intero 2019 è di 4,7 miliardi, un paio in meno delle ipotesi iniziali, e che dovrebbe durare 3 anni, lasciando spazio dopo alla possibilità per i lavoratori di andare in pensione con almeno 41 anni di contributi.

Le pensioni assorbono un sesto del pil e un terzo dell’intera spesa pubblica, nonché delle entrate. Naturale che suscitino divisioni e scontri tra schieramenti. Nel 2015, la mancata indicizzazione per gli importi superiori ai 1.500 euro lordi mensili fu bocciata dalla Corte Costituzionale e costrinse l’allora governo Renzi a reperire svariati miliardi per ottemperare alla sentenza “immediatamente esecutiva” dopo anni di blocco della perequazione.

Già questa impostazione fa acqua. Potrebbe apparire molto equa, ma lo è solo nel caso delle pensioni erogate con il metodo retributivo, la cui entità è coperta parzialmente dai contributi versati. Per le pensioni liquidate con il metodo contributivo, invece, l’indicizzazione parziale implica un ingiusto appiattimento degli assegni negli anni e tanto più veloce quanto più alti sono i tassi annuali d’inflazione. Non ha senso, perché chi ha versato più contributi ha diritto a percepire assegni proporzionalmente più alti, non di vedersi affievolito il maggiore importo rispetto ai livelli più bassi, in conseguenza di una indicizzazione parziale.

Un fatto di equità tra generazioni

C’è, poi, un problema di equità generale che riguarda le pensioni. E’ giusto che siano agganciate all’inflazione, quando così non è per salari e stipendi? Le retribuzioni dei dipendenti, infatti, crescono sulla base dell’aumento della produttività, che a sua volta tende a coincidere con la crescita dell’economia, ossia del pil. Dunque, abbiamo che il mondo del lavoro non è in sé tutelato dall’inflazione, i pensionati sì. Ciò porta a una disparità in favore dei secondi, negli anni di crisi. Quando il pil resta fermo o, come dal 2008 arretra, le retribuzioni non crescono e spesso si riducono in termini reali (crescono meno dell’inflazione), mentre l’inflazione tende semmai a decelerare, non a tradursi in deflazione, per quanto ci siamo andati vicinissimi nel 2016. Ciò significa, quindi, che chi lavora subisce una perdita del potere di acquisto, chi è in quiescenza ne viene tutelato, almeno in parte.

Debito pubblico generato per due terzi dalle pensioni

Nulla di così scandaloso, se non vivessimo in uno stato dalle forti disparità tra generazioni. I giovani e lavoratori di oggi percepiscono retribuzioni mediamente basse fino a tarda età e hanno come prospettiva un’età pensionabile di gran lunga più alta di quella dei loro genitori e nonni, anche al netto della maggiore longevità, nonché un trattamento peggiore in funzione dell’ultimo stipendio, essendo il loro futuro assegno agganciato essenzialmente ai contributi versati, questi ultimi spesso frammentati o nulli, a causa di contratti atipici, che nei fatti mascherano una condizione di subordinazione lavorativa.

Se le pensioni fossero agganciate alle variazioni dei salari, lavoratori e pensionati andrebbero a braccetto e almeno su questo piano si vivrebbe una condizione di equità intergenerazionale, oltre che di equilibrio tra la massa dei contributi e quella degli assegni da sborsare.

Oltre tutto, essendo una voce di spesa altissima per lo stato, in sé l’indicizzazione delle pensioni all’inflazione tenderebbe a far ristagnare la crescita generale dei prezzi sui livelli vigenti, colpendo le retribuzioni nelle fasi di bassa crescita della produttività e di crisi, quando non riescono a tenervi il passo. Non dimentichiamo che con il sistema a ripartizione, sono i lavoratori a mantenere i pensionati e appare giusta l’esigenza di non penalizzare i primi, creatori di ricchezza. Anzi, il legislatore dovrebbe rimuovere ogni ostacolo sulla strada per la crescita della produttività e agganciare anche le pensioni a queste ultime, assicurando benessere ai lavoratori e adeguate rivalutazioni degli assegni non ai loro danni e a discapito della fetta di torta spettante alle retribuzioni.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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