La riforma pensioni che verrà non sarà migliorativa del quadro attuale. Questo è poco ma sicuro. A dirlo non sono gli esperti, il governo, l’Inps o i sindacati. Ma i numeri, quelli drammatici e preoccupanti sul calo delle nascite in Italia.
Facciamo sempre meno figli e se già oggi ci sono meno giovani che lavorano chi sosterrà le pensioni? I contribuenti al sistema delle rendite pubbliche, come noto, sono i lavoratori che versano ogni settimana soldi nelle casse previdenziali per sostenere i pagamenti delle pensioni.
Chi paga le pensioni se non ci sono contribuenti
L’ultimo allarme sull’emergenza denatalità è stato lanciato dal Forum nazionale delle associazioni familiari. Rielaborando i dati Ocse l’associazione ha ribadito una cosa nota, ma incredibilmente trascurata da tutti: non bastano 390 mila nuovi nati l’anno per tenere in piedi l’economia del Paese. Per dirla con le parole del presidente Inps Pasquale Tridico:
“Il sistema pensionistico in un Paese con 60 milioni di abitanti non si può reggere, nel lungo periodo, con sole 23 milioni di persone che lavorano”.
In altre parole, il welfare italiano si sta lentamente sgretolando, ma nessuno sembra curarsene più di tanto. I sindacati men che meno, chiedendo ancora con insistenza pensioni anticipate. Così come la Lega che punta i piedi su Quota 41 senza capire che già oggi il conto delle scellerate riforme del passato (compresa Quota 100) le stanno pagando figli e nipoti.
Nessuno lo dice, ma la riforma Fornero del 2011 è stata quella che ha permesso all’Italia di evitare il default. Il sistema a ripartizione basato sul calcolo delle pensioni del sistema retributivo da una parte, e il calo demografico dall’altra, stanno indebolendo i pilastri del welfare italiano. Col rischio che, in assenza di interventi già da quest’anno, non ci saranno più soldi per pagare le pensioni.
Chi paga il conto
Il problema delle culle vuote andrà inesorabilmente a impattare sui conti pubblici. In Italia ci sono 23 milioni di lavoratori che sostengono 16 milioni di pensionati su una popolazione di 60 milioni. Il rapporto fra lavoratori e pensionati è in calo a 1,3 e arriverà a 1 entro il 2050. Numeri che già oggi evidenziano la precarietà del sistema pensionistico italiano e la tenuta dei conti Inps.
A ricordare al governo – che ha recentemente dato il via al tavolo negoziale coi sindacati per riformare le pensioni dal 2024 – la precarietà dei conti pubblici è il presidente dell’Inps Pasquale Tridico. In una breve nota avverte che “il quadro da qui al 2029 non è positivo”. Col rischio che a quella data il patrimonio dell’Istituto sarà negativo per 92 miliardi di euro.
Nel complesso il costo per prestazioni previdenziali nel 2021 ha raggiunto i 312 miliardi di euro (il 16,2% del Pil). La voce che incide maggiormente sulle uscite è quella delle pensioni anticipate (il 56% del totale), seguita dalle pensioni di vecchiaia (il 18%) e dalle pensioni ai superstiti (14%). Le prestazioni agli invalidi civili rappresentano il 7% del totale e le altre due voci (pensioni di invalidità e pensioni e assegni sociali), rispettivamente, il 4% e il 2%.
Le pensioni anticipate
In questo contesto, il governo deve necessariamente evitare che la spesa per le pensioni cresca ulteriormente nei prossimi anni. Questo, in sostanza, il messaggio che Tridico manda alla ministra al Lavoro Elvira Calderone che ha dato il via al dibattito con le parti sociali sulla prossima riforma pensioni 2024.
Un percorso già avviato dal precedente governo Draghi e che sarà probabilmente completato da quello Meloni. Quota 103 terminerà il 31 dicembre 2023 e Opzione Donna, già ristretta in maniera brutale rispetto allo scorso anno, è sulla via del tramonto. Ma poi, la domanda che ci si pone è: la fine delle pensioni anticipate sarà sufficiente a contenere la spesa?
La risposta è negativa.
Il taglio degli assegni
Più esattamente, una volta terminati i tagli alle pensioni anticipate e ritardata l’uscita dal lavoro agganciata alla speranza di vita (già adesso oltre i limiti tollerabili a 67 anni), si passerà alla riduzione degli assegni. Cosa per altro già in atto con il ridimensionamento della rivalutazione per importi sopra 4 volte il trattamento minimo.
Il problema di domani non sarà, quindi, la simulazione. Non più il “quanto”, ma il “se”. A dirlo è il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo che aveva già lanciato più volte l’allarme sul calo delle nascite:
“Nei primi sei mesi del 2022 si è registrato il 3% di nati in meno. Questo porta a un cambiamento numerico della popolazione. Vuol dire che nell’arco di quattro decenni spariscono 12 milioni di persone”.