Un contribuente ex dipendente pubblico evidentemente con pensioni di un certo rilievo aveva aperto ad una potenziale questione di incostituzionalità sul meccanismo della rivalutazione delle pensioni. Un ricorso infatti era finito davanti alla Corte Costituzionale proprio perché secondo il ricorrente il taglio della rivalutazione per gli anni 2023 e 2024 era contrario ai principi della nostra Carta. C’era attesa per la sentenza che doveva emettere la Consulta. Perché nel caso di conferma della incostituzionalità del provvedimento, si potevano aprire le porte ad altri ricorsi di altri pensionati. Ma soprattutto, a rimborsi ed arretrati a diversi zeri vista l’entità del taglio.
E invece, ecco la doccia gelata per chi pensava di essere stato vittima di una discriminazione.
Pensioni tagliate giustamente, il duro colpo arriva dalla Corte Costituzionale
Il problema nasce dal meccanismo della rivalutazione adottato dal governo Meloni per l’anno 2023 e per l’anno 2024. Le pensioni nel 2023 furono incrementate in base ad un tasso di inflazione del 7,3% a gennaio di quell’anno. Poi si passò ad un aumento del 5,4% da gennaio 2024, per lo stesso motivo collegato all’aumento del costo della vita. Ma l’aumento pieno al tasso di inflazione, ovvero al 100% di quelle percentuali di inflazione fu assegnato solo a pensionati con trattamenti fino a 4 volte il minimo, cioè più o meno fino a 2.400 euro al mese di pensione.
Invece per le pensioni più alte ecco applicare i tagli. Il sistema è stato identico nel 2023 e nel 2024, salvo che per le pensioni più alte di 10 volte il trattamento minimo per le quali la situazione, già pesante in materia di taglio subito nel 2023, è peggiorata nel 2024.
Tagli che come vedremo sono stati pesanti, anche perché applicati all’intera pensione e non solo sulla parte eccedente lo scaglione precedente. Nello specifico:
- 100% della rivalutazione per le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo;
- 85% della rivalutazione per le pensioni sopra 4 e fino a 5 volte il trattamento minimo;
- 54% della rivalutazione per le pensioni sopra 5 e fino a 6 volte il trattamento minimo;
- 47% della rivalutazione per le pensioni sopra 6 e fino a 8 volte il trattamento minimo;
- 37% della rivalutazione per le pensioni sopra 8 e fino a 10 volte il trattamento minimo;
- 22% nel 2024 e 32% nel 2023 di rivalutazione per le pensioni sopra 10 volte il trattamento minimo.
Da dove nasceva la presunta incostituzionalità del provvedimento
Il fatto nasce dall‘articolo numero 36 della Costituzione. Che stabilisce testualmente che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Questo significa che se è vero che le pensioni non sono altro che ciò che un lavoratore ha maturato dopo anni ed anni di carriera, anche le pensioni dovrebbero essere proporzionate alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Ecco perché c’è chi pensava alla incostituzionalità del provvedimento di perequazione come utilizzato nei due anni già citati. A tal punto che per esempio nel 2025 l’aumento perequativo delle pensioni è stato fatto con la seguente formula:
- 100% della rivalutazione per le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo;
- 90% della rivalutazione per la parte di pensione sopra 4 e fino a 5 volte il trattamento minimo;
- 75% della rivalutazione per le pensioni sopra 5 volte il trattamento minimo.
Ecco la sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni
La Corte Costituzionale, da cui qualcuno nutriva la speranza di una sentenza favorevole al ricorso, la pensa esattamente come il governo. Ok quindi ai tagli alla rivalutazione legata all’inflazione delle pensioni più alte di importo. Nulla di irragionevole secondo gli ermellini costituzionalisti, perché vengono salvaguardate le pensioni delle classi meno abbienti e quindi in virtù di una ricerca di equità sociale, chi ha una pensione più alta reagisce meglio all’aumento del costo della vita. Perché le pensioni più elevate hanno maggiore resistenza alla spinta inflazionistica. Niente arretrati di pensione e niente aumenti sia retroattivi che futuri quindi. Non è andata come andò invece ai tempi del blocco della perequazione voluto dalla riforma Fornero quando la Consulta condannò il governo a risarcire i danneggiati dallo stop all’indicizzazione. In quel caso infatti, pur non restituendo tutto ciò che avevano perduto, i pensionati ricevettero un bonus una tantum a parziale correzione dell’errore commesso.