La direzione è ormai chiara: per andare in pensione servono carriere sempre più lunghe. Questo vale sia per le pensioni non legate all’età anagrafica, sia per quelle che richiedono il raggiungimento di un’età minima. Il trend è evidente, e riguarda tanto le riforme previdenziali future quanto le misure attualmente in vigore, se si osserva l’evoluzione degli ultimi anni.
L’asticella si alza di continuo. E presto si tornerà a fare i conti con il meccanismo di adeguamento all’aspettativa di vita, un sistema che si è già dimostrato penalizzante per i lavoratori: più aumenta la vita media, più aumentano i requisiti contributivi e più si riduce l’importo delle pensioni.
Vediamo dunque a che punto siamo arrivati e cosa ci attende: perché per la pensione servono e serviranno sempre più contributi.
Per la pensione sempre più contributi: ecco cosa cambia tra carriere e finestre
Prendiamo come riferimento le misure cosiddette “per quotisti”, a partire dal 2019.
Si iniziò con Quota 100, durata fino al 2021, che consentiva di andare in pensione con 62 anni di età e 38 anni di contributi, sia per lavoratori dipendenti che autonomi. Era prevista una finestra di 3 mesi per il settore privato e 6 mesi per il pubblico impiego.
Nel 2022 subentrò Quota 102, che confermava i 38 anni di contributi, ma alzava l’età anagrafica a 64 anni, mantenendo le stesse finestre.
Nel 2023 arrivò il vero inasprimento con Quota 103: si tornò a 62 anni di età, ma con un incremento dei contributi richiesti a 41 anni, gli stessi previsti dalla Quota 41 per lavoratori precoci. Questa misura, ancora in vigore, è però peggiorata sotto più aspetti:
- il calcolo della pensione è interamente contributivo;
- l’importo non può superare 4 volte il trattamento minimo;
- le finestre di decorrenza sono diventate più lunghe: 7 mesi per i privati, 9 mesi per il pubblico.
La finestra di attesa per le pensioni: si può anche continuare a lavorare (e lo fanno quasi tutti)
Sebbene non sia obbligatorio lavorare durante la finestra di attesa, nella pratica quasi tutti lo fanno. Restare senza reddito per diversi mesi – dal momento in cui si maturano i requisiti alla prima erogazione della pensione – è insostenibile per la maggior parte dei lavoratori.
Le finestre sembrano essere uno strumento per mascherare l’inasprimento dei requisiti. Piuttosto che dire esplicitamente di averli aumentati, si ritarda la decorrenza della pensione, consentendo allo Stato di posticipare i pagamenti e risparmiare risorse.
Questo schema è valido anche per le pensioni anticipate ordinarie e per la Quota 41 per lavoratori precoci, entrambe senza limiti anagrafici:
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la pensione anticipata ordinaria richiede 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, e 41 anni e 10 mesi per le donne;
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la Quota 41 è destinata a determinate categorie, richiedendo 41 anni di contributi, di cui almeno uno versato prima del compimento del 19° anno di età.
Entrambe prevedono una finestra di 3 mesi, che costringe spesso i lavoratori a prolungare l’attività lavorativa fino alla decorrenza della pensione. In pratica, le soglie effettive diventano 43 anni e 1 mese per gli uomini, e 42 anni e 1 mese per le donne, anche senza alcuna modifica normativa formale.
Dal 2027 nuovi inasprimenti: per la pensione serviranno ancora più contributi
Queste soglie potrebbero diventare ufficiali nel 2027, a causa dell’adeguamento automatico all’aspettativa di vita. Secondo le proiezioni, le pensioni di vecchiaia potrebbero salire da 67 anni a 67 anni e 3 mesi, e lo stesso rischio riguarda le pensioni anticipate.
L’ISTAT segnala un aumento costante della vita media dopo la pandemia, e ciò comporterebbe l’introduzione di 3 mesi aggiuntivi di contribuzione a partire dal 2027.
Salvo interventi di salvaguardia del governo, le pensioni anticipate ordinarie potrebbero passare a 43 anni e 1 mese per gli uomini, e 41 anni e 1 mese per le donne. Sommando la finestra di 3 mesi, si arriverebbe a 43 anni e 4 mesi e 42 anni e 4 mesi rispettivamente.
E c’è anche il rischio che si decida di allineare le finestre a quelle previste per Quota 103 (7 e 9 mesi), aggravando ulteriormente la situazione.
Anche le pensioni di vecchiaia aumenteranno il requisito contributivo?
Quando diciamo che per la pensione serviranno sempre più contributi, questo vale anche per le pensioni di vecchiaia e per le forme simili.
Ad esempio, la pensione anticipata contributiva, riservata a chi non ha contributi prima del 1996, richiede:
- 20 anni di contributi;
- 64 anni di età;
- una finestra di 3 mesi;
- un importo minimo pari a 3 volte l’assegno sociale.
Dal 2025 è stata introdotta la possibilità di integrare l’importo minimo con la previdenza complementare. Tuttavia, per esercitare questa opzione servono almeno 25 anni di contributi. Questo è un indizio forte della direzione intrapresa: così come 67 anni è l’età minima per la pensione di vecchiaia, 25 anni di versamenti potrebbero presto diventare il nuovo requisito contributivo minimo.
Nelle ipotesi di riforma pensionistica: sempre più contributi richiesti
L’idea dei 25 anni di contributi minimi non è nuova. Era già stata prospettata dal CNEL, l’organo incaricato di proporre soluzioni per la riforma del sistema previdenziale. Si parlava di una pensione flessibile tra i 64 e i 72 anni, con premi per chi rimaneva al lavoro e penalità per chi usciva prima.
Ma anche in questo scenario, il requisito contributivo base era di 25 anni.
Tutto ciò conferma che l’indirizzo è chiaro: per andare in pensione serviranno sempre più contributi, anche per accedere alle forme più tradizionali e ordinarie.