Ai piccoli azionisti di UBI Banca riuniti nel CAR (Comitato Azionisti di Riferimento) l’Offerta Pubblica e di Scambio proposta da Intesa Sanpaolo non è proprio andata giù. Sebbene debba ancora essere fissata una riunione formale, a conclusione della quale il gruppo invierà le proprie valutazioni (è stata rinviata a causa del Coronavirus), il vice-presidente del Consiglio di sorveglianza, Mario Cera, anch’egli un pattista, ha dichiarato chiaro e tondo che “c’è un patrimonio netto, basta vedere il bilancio”, alludendo al fatto che l’offerta di Carlo Messina sarebbe troppo bassa per essere accettata.
Intesa Sanpaolo vuole comprarsi UBI Banca, presto offerta anche per MPS?
Il CAR riunisce azionisti in possesso di circa il 18% del capitale. In questi giorni, approfittando del boom in borsa del titolo (+23,5% subito dopo l’annuncio), qualcuno del gruppo ha venduto azioni per un controvalore di circa lo 0,5% del capitale, ma per contro Cattolica Assicurazioni ha raddoppiato la propria quota all’1%, annunciando contestualmente l’ingresso nel patto di consultazione, il quale adesso si ritroverebbe a gestire complessivamente circa il 18,7% del capitale. Di esso fanno parte la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo (5,9%) e la Fondazione del Monte di Lombardia (4,96%), al netto delle cui quote, il resto del gruppo possiede meno dell’8%, sparso tra decine di famiglie dell’imprenditoria locale, come Radici, Lucchini, Bazoli, Gussalli Beretta, Basatelli, Andreoletti e Folonari.
Dunque, sarebbe una questione di prezzo? Sì e non solo. Il CAR lamenta che l’offerta di Intesa non valorizzerebbe la banca come dovrebbe, in quanto i 4,30 euro proposti porterebbero la capitalizzazione a Piazza Affari a 4,89 miliardi, a fronte di un patrimonio netto di 9,5 miliardi. A conti fatti, Intesa vorrebbe comprare UBI a metà del valore dei suoi assets. Verissimo, ma quello che i pattisti non dicono è che prima che l’offerta venisse lanciata, UBI in borsa di miliardi ne valeva meno di 4.
Non solo battaglia sul prezzo
Questa apparente anomalia è data dal fatto che il mercato guarda con scetticismo agli attivi degli istituti di credito, a causa dell’elevato livello dei crediti deteriorati e dello stretto legame con l’andamento economico inter-nazionale, oltre che con quello del debito pubblico italiano. Non è un caso che una grande banca come Unicredit stia cercando da qualche tempo di allentare il legame con l’Italia, così da rifinanziarsi sui mercati a costi più bassi e da potere essere valutata più in linea con i suoi fondamentali, senza la zavorra del rischio sovrano.
Banche italiane aiutate dalla BCE
Del resto, è naturale che si giochi al rialzo, sebbene Messina abbia avvertito che Intesa non alzerà il prezzo offerto, come a mettere in guardia il CAR dal tirare la corda. Affinché l’OPS vada in porto, Ca’ de Sass vuole che venga accettata da almeno i due terzi del capitale, pur accontentandosi in seconda battuta anche della maggioranza semplice. Ma non è il solo prezzo a dividere le parti. Il punto è che un nucleo di piccoli imprenditori, sostenuti da due fondazioni bancarie, riescono ad oggi a controllare la terza banca italiana con scarsi capitali, entrando negli organi amministrativi e ottenendo la maggioranza grazie alla tecnica del patto.
Nel caso di fusione con Intesa, questo “privilegio” verrebbe meno. Il 18% si diluirebbe e diverrebbe una quota marginale della nuova entità e anche la rappresentanza andrebbe a farsi benedire. Legittimo e persino comprensibile il “no” a Messina. Tuttavia, questo è il mercato e non risulta che la gestione attuale abbia valorizzato la banca in borsa intorno ai livelli del suo patrimonio netto, anzi.