Era risalito a 1,02, ma durante la settimana è tornato sulla parità. Eravamo stati facili profeti nel prevedere che il cambio euro-dollaro non sarebbe rimasto a lungo nettamente sopra i minimi toccati nelle sedute precedenti. Mercoledì è arrivato il dato sull’inflazione USA ad agosto, scesa sì all’8,3% dall’8,5% di luglio, ma rimanendo ai livelli massimi del range atteso. Monitorando il dato “core”, si percepisce che la corsa dei prezzi al consumo nella prima economia mondiale non starebbe più accelerando, ma si starebbe stabilizzando su livelli molto elevati.
Sulla scorta di questi numeri, le previsioni del mercato appaiono sempre più drastiche riguardo ai tassi FED futuri: sono attesi in crescita dello 0,75% a settembre dopo la riunione della Federal Reserve; e ancora al 4% al board di inizio novembre, al 4,25% a dicembre e al 4,50% a inizio 2023. Per cercare di combattere l’inflazione, quindi, la banca centrale americana alzerebbe il costo del denaro più in alto di quanto previsto fino a poche settimane fa. E ormai non vi sarebbero più neppure attese per un taglio dei tassi da qui a un anno. Pensate che questa estate si pensava fosse improbabile che i tassi americani salissero al 4% o anche un po’ al di sotto di tale soglia.
Non solo cambio euro-dollaro debole
E’ proprio questo mutamento di scenario ad affossare il cambio euro-dollaro. Per l’Eurozona le aspettative si mostrano meno rialziste, per quanto anche in questo caso in aumento rispetto alle scorse settimane. E a soffrire non è certo solo la moneta unica. Lo yen resta ai minimi dal 1998, tanto che la Banca del Giappone potrebbe intervenire prima o poi a sostegno del suo tasso di cambio.
Problema analogo per la sterlina, ai minimi dal 1985 contro il biglietto verde. La Banca d’Inghilterra ha già alzato i tassi d’interesse a 1,75%, a fronte di un’inflazione (scesa) ad agosto al 9,9%. La BCE li ha portati a 1,25% e al board di ottobre dovrebbe alzarli nuovamente a 1,75%. C’è chi, tra i “falchi” di Francoforte, vorrebbe un ulteriore rialzo dello 0,75%, cioè al 2%. A differenza dell’economia americana, però, Regno Unito ed Eurozona rischiano la recessione, per cui le rispettive banche centrali disporrebbero di minori margini di manovra contro il carovita. Eventuali dati macro negativi per l’area farebbero precipitare il cambio euro-dollaro verso nuovi minimi sotto la parità.