Giovedì scorso, le quotazioni del petrolio sono esplose di circa il 30%, superando i 30 dollari al barile, dopo che il presidente americano Donald Trump aveva twittato su un accordo raggiunto con Arabia Saudita e Russia per stabilizzare i prezzi del greggio, evidentemente tagliando la produzione. Dopo qualche ora è arrivata la doccia fredda da Mosca, dove l’addetto stampa del presidente Vladimir Putin ha smentito che russi e sauditi avessero stretto un’intesa in tal senso. La realtà starebbe nel mezzo: gli USA avrebbero convinto i due paesi a sedersi con loro attorno a un tavolo per discutere su come sostenere il comparto.
I prezzi sono crollati quest’anno dei due terzi, scendendo fino a un minimo di 23 dollari per un barile di Brent e a 20 dollari per il WTI americano, ai minimi dal 2002. Già è saltata una compagnia americana. La Whiting Petroleum ha portato i libri in tribunale. Nel 2019, aveva estratto la media di 125.000 barili al giorno. E’ evidente che questa situazione non convenga a nessun produttore, ma stavolta né Russia e né Arabia Saudita vogliono cedere quote di mercato a concorrenti come gli USA, tagliando la propria produzione. Dal canto loro, le estrazioni di greggio delle compagnie americane sostano ai massimi di sempre, a 13 milioni di barili al giorno. E questo indispone alquanto sia Mosca che Riad.
Prezzo del petrolio ai minimi dal 2002, ma la benzina costa davvero tanto meno?
I repubblicani al Congresso hanno inviato un messaggio chiaro all’alleato di Riad in settimana: “gli americani muoiono per proteggervi”, nemmeno troppo in codice per segnalare al principe ereditario Mohammed bin Salman, vero detentore del potere nel regno, che l’alleanza tra i due paesi è a rischio se egli punta a danneggiare lo “shale” a stelle e strisce. Qual è il punto? L’emergenza Coronavirus sta spingendo un po’ tutte le grandi economie a chiudere le attività, a sospendere i movimenti internazionali e a limitare quelli interni per le strette necessità.
Si riduce la capacità di stoccaggio
A fronte di consumi in caduta libera, i sauditi stanno portando la loro produzione ai massimi, spingendola del 25% a 12 milioni di barili al giorno da questo mese di aprile, mentre la Russia la mantiene ferma e così anche nel complesso le migliaia di compagnie americane. Insomma, l’offerta non diminuisce, anzi tende paradossalmente a crescere, vuoi per le strategie geopolitiche messe in campo dai grandi produttori asiatici, vuoi anche per la necessità di molte realtà private, americane in testa, di massimizzare il fatturato per onorare le scadenze, così come anche per ritrovarsi a disposizione subito tutta l’offerta disponibile per quando i clienti torneranno a comprare.
Ma se i clienti spariscono e le estrazioni viaggiano a pieno regime, dove va a finire questo petrolio? Nei serbatoi, a terra o sulle navi petroliere. In un solo fine settimana, di recente Kpler ha scoperto, ricorrendo alle immagini satellitari, che 10 milioni di barili sono stati trasportati verso i grandi serbatoi in tutto il mondo, immagazzinati come scorte. Farebbero il 10% della domanda globale in un periodo ordinario. A questi ritmi, la capacità di stoccaggio nel pianeta verrà meno tra non molto. Si stima già che sulle navi vi sarebbero tra 80 e 100 milioni di barili depositati e sempre Kpler stima al 71% lo stoccaggio mondiale rispetto alla capacità massima.
Benvenuta deflazione nell’era del petrolio a 25 dollari
Quanto a quest’ultima, le stime degli analisti divergono parecchio: si va da un minimo di 0,9 a un massimo di 1,8 miliardi di barili, pari a 9-18 giorni di estrazioni in un periodo ordinario.
Quotazioni del petrolio tendenti a zero
Il timore di Trump, ma anche di tutti gli stati produttori, è che le quotazioni, per quanto già molto basse, possano tendere a zero per la follia di un mercato in cui domanda e offerta tendono sempre più a divergere sul piano quantitativo. Se accadesse, una buona parte delle piccole società attive nelle estrazioni di “shale” USA salterebbe in aria, impossibilitata a resistere alla crisi. E che si stia andando verso quella direzione lo segnala anche l’impennata dei prezzi per lo stoccaggio di greggio presso tutti gli hub internazionali. A quello di Amsterdam-Rotterdam-Anversa si è passati da 2 a 4 euro per metro cubo al mese; a Barcellona da 2,85 a 3,50 euro. E a Cushing, in Oklahoma, si è passati da 20 a 50 centesimi di dollaro al barile al mese in appena 30 giorni.
Riepilogando: i prezzi sono collassati, ma poiché l’offerta globale resta immutata, la pressione rimane ribassista, mentre si restringe progressivamente lo spazio disponibile per accumulare barili come scorte e affittarlo costa fino al 100% in più rispetto a poche settimane fa, aumentando ulteriormente i costi delle compagnie, le quali per la stragrande maggioranza già estraggono in perdita. A questo punto, solo un coordinamento tra i principali stati produttori può far cambiare direzione ai prezzi, riducendo l’offerta.
Ma i sauditi pretendono che facciano lo stesso i russi e i russi a loro volta puntano al colpaccio, cioè a vedersi ridotte, se non eliminate da Trump, le sanzioni finanziarie.
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