Quest’anno, il prezzo dell’oro si è impennato del 13%, salendo nei pressi dei 1.720 dollari l’oncia, +200 in cinque mesi e mezzo. Nel frattempo, il dollaro resta mediamente sopra i livelli di apertura contro le principali valute mondiali, sebbene si sia sgonfiato di circa il 6% dai massimi toccati a marzo. In genere, l’apprezzamento dell’oro si accompagna all’indebolimento del dollaro, tranne quando il primo risulta trainato da tensioni finanziarie e/o geopolitiche internazionali, come sta avvenendo in questi mesi di emergenza Coronavirus.
La Federal Reserve, nei giorni scorsi, non ha escluso di procedere in futuro al controllo della curva dei rendimenti sovrani, dopo avere iniettato sui mercati qualcosa come 3.000 miliardi di dollari in meno di tre mesi. L’ultima volta che ha adottato una simile policy fu nel 1942, quando fissò allo 0,375% il rendimento massimo per il Treasury a 3 mesi e al 2,50% quello per il Treasury a 25 anni. Da anni, la Banca del Giappone fa lo stesso, perseguendo l’obiettivo di un rendimento decennale “intorno allo zero”.
Il contro della curva dei rendimenti è questione di tempo per BCE e Fed
Con queste azioni, la Fed punterebbe a riprendere il controllo della curva e della sua inclinazione, anche se ciò potrebbe significare per essa dover condurre acquisti tendenzialmente illimitati per centrare i target su alcune scadenze. La conseguenza di questo cambio di approccio, che in realtà sarebbe l’obiettivo implicito, porterebbe a rendimenti americani in linea o inferiori ai tassi d’inflazione. In altre parole, se è vero che il governatore Jerome Powell continui a contrastare l’idea di adottare i tassi negativi, d’altra parte non disdegnerebbe i rendimenti reali negativi, così da ottenere la sostenibilità del debito pubblico e corporate americano.
Boom dell’oro col tonfo del dollaro
Il primo dovrebbe salire quest’anno al 130% del pil, poco meno dell’Italia a fine 2019. Gli USA dovrebbero chiudere il 2020 con un disavanzo fiscale al 15%, inclusivo dei 3.000 miliardi di stimoli varati dal governo e approvati dal Congresso per sostenere i redditi contro la più grave crisi dalla Grande Depressione del 1929. Il punto è che con i rendimenti americani sotto l’inflazione o tutt’al più in linea con essa, gli investitori troverebbero scarsi incentivi a impiegare i loro capitali sul mercato a stelle e strisce. Oltre tutto, i tassi di risparmio negli USA sono calanti da decenni: erano al 10% nel 1980, scendevano all’8% nel 1990 e giacevano poco sotto tale livello prima del Covid-19.
Di fatto, i risparmiatori americani metterebbero da parte una porzione dei loro redditi insufficiente a garantire l’equilibrio della bilancia commerciale, tant’è che questa esita deficit cronici, colmati solo parzialmente dall’afflusso netto di capitali. E questi, a loro volta, sono attirati da un mercato dei capitali molto liquido, unitamente a rendimenti obbligazionari positivi e superiori a quelli imperanti presso gli altri mercati maturi. Qualora la Fed, tramite il controllo della curva, riuscisse a centrare rendimenti reali sottozero, tale afflusso di capitali verrebbe meno, anche sulla base di aspettative sui tassi di cambio ben più negative. Il dollaro si deprezzerebbe, potenzialmente pure di molto, se si considera che rispetto ai livelli toccati nell’era Obama con i tre cicli di “quantitative easing” attuati dalla Fed dopo la crisi del 2008, ad oggi si mostra di circa il 25% più forte.
Possibile che l’oro scenda con il petrolio che risale?
Un tonfo del biglietto verde metterebbe le ali all’oro, che già oggi quota sui massimi storici, una volta che i prezzi vengano considerati in alcune valute locali, tra cui euro, dollaro canadese, australiano e yen.