Netflix la manda in onda da poco più di un mese e il successo della serie TV è diventato eclatante. “Squid Game” è seguito da centinaia di milioni di abbonati nel mondo, per quanto il doppiaggio dal coreano finora sia limitato a tre sole lingue (inglese, spagnolo e francese). Il resto della popolazione mondiale è costretto a guardare le nove puntate con i sottotitoli.
“Squid Game” tratta la storia di 456 persone invitate a partecipare a semplici giochi d’infanzia per un premio finale di 45,6 miliardi di won, pari a circa 33 milioni di euro.
La trama di Squid Game
Invece, il successo per certi versi inatteso di “Squid Game” – quando mai una serie coreana ha avuto così tanto riscontro in Occidente? – dovrebbe interrogarci sulle ragioni di tanto seguito. Certamente, la trama è semplice e, diciamoci la verità, la violenza paga. Chi conosce la filmografia di Quentin Tarantino sa che vale la pena attendere lo svolgimento di scene spesso apparentemente lunghe e lente senza alcuna specifica ragione, che non fanno altro che preparare lo spettatore a gustarsi scene di “splatter” cruente e al contempo divertenti, almeno per chi gradisce il genere.
Tuttavia, l’enorme eco che “Squid Game” sta riscuotendo nel mondo sarebbe anche una spia di qualcosa che forse non va nell’economia mondiale. I 456 partecipanti al gioco sono persone indebitate ed economicamente conciate male. Rischiano la vita per disperazione. Sebbene le chance di vittoria siano bassissime, non si fanno problemi a mettere in pericolo sé stessi. Se ci pensiamo bene, sarebbe una denuncia delle condizioni di vita in cui versa una fetta rilevante della popolazione del pianeta.
La nuda realtà dell’economia odierna
Seul è una capitale mondiale del business. I suoi grattacieli non hanno nulla da invidiare a quelli americani. Eppure, dietro a tanta modernità si cela una corsa sfrenata al debito. Quello dei privati supera il 270% del PIL, uno dei più alti al mondo. Cosa significa? Molta ricchezza delle famiglie è alimentata dai loro impegni futuri. Il problema riguarda da vicino l’Occidente, dove proprio le economie spesso guardate con maggiore ammirazione per il loro presunto benessere elevato e diffuso nascondono qualche insidia. E’ il caso della Scandinavia, in cui l’acquisto di una casa avviene ormai da tempo a prezzi insostenibili per la gran parte del ceto medio e presuppone un crescente indebitamento delle famiglie.
E così, “Squid Game” ci fa capire quanto il problema sia mondiale. Una critica al capitalismo, alla società dei consumi? Molto probabile. Ma se vogliamo, anche alla gestione dell’economia da qualche decennio a questa parte: tassi bassi per consentire a stati, aziende e famiglie di ripagare i loro debiti e continuare a contrarne di nuovi. Anziché interrogarsi sulle cause della bassa crescita, le banche centrali stanno foraggiando l’indebitamento come stile di vita. E le condizioni del ceto medio non migliorano affatto, perché se è vero che i debiti vecchi sono sostituiti da debiti nuovi un po’ meno costosi, le prospettive di base non hanno compiuto passi in avanti. E l’1% della popolazione più ricco continua ad accumulare ricchezza a ritmi impressionanti rispetto anche al recente passato, proprio grazie ai tassi negativi con cui governi e governatori centrali pretendono di salvare l’economia mondiale.
In conclusione, “Squid Game” deve il suo successo anche all’identificazione tra milioni di spettatori e i 456 disgraziati chiamati a giocarsi l’esistenza. I giochi proposti e da superare per ottenere il premio finale rappresentano probabilmente i numerosi compromessi quotidiani che molti di noi siamo costretti a stringere con la realtà per sbarcare il lunario e pagare la rata del mutuo per una casa appena grande da poterci entrare o della finanziaria per l’acquisto di un’auto di grossa cilindrata, con cui cerchiamo di sfoggiare all’esterno un benessere perlopiù fittizio. Perché molti di noi siamo stati indotti a credere che le differenze di classe siano scomparse quasi come se il comunismo avesse cambiato nome, prendendo in prestito quello della globalizzazione. E’ la pretesa di poter possedere tutto, indipendentemente dalla propria condizione professionale e sociale, la prima grande menzogna che ci raccontiamo da qualche decennio per fingerci tutti uguali. Serviva una serie TV coreana per smascherare la realtà.