I mercati si aggrappano a ogni dato macroeconomico in uscita dalle principali economie mondiali per capire come si muoverà l’inflazione nei prossimi mesi. A febbraio, è bastato notare un’accelerazione dei salari orari negli USA ai massimi dal 2009 per provocare un’ondata di vendite di Treasuries sulle attese per un rialzo dei tassi più deciso da parte della Federal Reserve. Quel dato, tuttavia, è stato rivisto in lieve calo nelle settimane successive e la stessa inflazione a febbraio è salita di poco nella prima economia americana, nonostante una disoccupazione scesa al 4,1%, il livello più basso di questo Millennio.
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Ma sbaglia chi ritiene che l’inflazione, o meglio, la sua debolezza sia un fenomeno delle singole economie. Essa va inquadrata nell’ambito di una tendenza globale, che non ha origine nemmeno in questi ultimi anni e che semmai si è intrecciato con i postumi della crisi finanziaria del 2007-’08. L’inflazione viaggiava quasi al 14% nel 1980, conseguenza dell’impennata delle quotazioni del petrolio con le due crisi petrolifere del 1973 e del 1979. La reazione delle amministrazioni Reagan negli USA e dei governi Thatcher nel Regno Unito fu drastica negli anni Ottanta: rialzo dei tassi, liberalizzazioni e privatizzazioni per combattere stagnazione economica e crescita dei prezzi a due cifre. La ricetta funzionò, ma non fu l’unica spiegazione del forte calo dell’inflazione negli anni successivi.
Un trend globale e pluridecennale
Un decennio dopo, nel 1990 l’inflazione globale viaggiava ancora all’8,5%, ma nel 2000 crollava già al 3,5% e tra alti e bassi, da allora si è portata sotto il 2% nell’ultimo triennio. Come mai? Due i fattori che sopra ogni altro spiegherebbero la disinflazione crescente dell’economia mondiale: progresso tecnologico e globalizzazione. Il primo consente produzioni a costi unitari sempre più bassi, per quanto richieda inizialmente ingenti investimenti, i quali vengono, tuttavia, assorbiti dalle economie di scala realizzate da colossi internazionali sempre più grandi e a cui risulta sempre più difficile fare concorrenza. Pensiamo a Google, Microsoft, ma anche a Netflix, Amazon, Facebook, etc.
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L’apertura dei mercati, iniziata con il vento reaganiano e thatcheriano proprio negli anni Ottanta, sta facendo il resto: la concorrenza non è più locale o nazionale, bensì mondiale. Questo spinge le imprese a tenere i costi quanto più bassi possibile e la pressione sui salari è diventata fortissima e costante. Gli stessi margini si riducono, perché nessuno o quasi può permettersi più di tenere i prezzi alti, quando si rischia di essere sostituiti dai clienti con un clic del mouse.
Deflazione globale possibile
Le banche centrali rischiano, quindi, di considerare le dinamiche sui prezzi come fenomeni puramente nazionali e slegati da un più ampio contesto storico e geografico, che le aiuterebbe a comprendere quanto poco efficaci siano per centrare i target d’inflazione persino misure estreme, come gli stimoli monetari dell’ultimo decennio. Anzi, non possiamo nemmeno escludere che da qui a poco possa registrarsi una fase di deflazione globale. Leggendo il grafico dell’inflazione della Banca Mondiale, scopriamo che l’unico picco dei prezzi lo si è avuto nel nuovo Millennio nel 2008, anno in cui le quotazioni del petrolio raggiunsero il record ad oggi mai più toccato dei 146 dollari al barile e al contempo il dollaro si rafforzò mediamente del 15% contro le altre valute in appena 9 mesi, amplificando l’effetto del caro-greggio.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito, invece, a un apprezzamento del dollaro tra il 2013 e il 2016 del 35%, seguito da un indebolimento del 12% ad oggi. Viceversa, le quotazioni del petrolio sono crollate di oltre il 70% tra la metà del 2014 e gli inizi del 2016, risalendo da allora di oltre il doppio, ma restando sotto i 70 dollari. A seconda di come si muoveranno i due, ricadremo o meno nella deflazione. A tale proposito, il dollaro sta ripiegando da mesi per effetto sia dei propositi sbandierati dell’amministrazione Trump di indebolire il cambio a fini competitivi, sia per la minore divergenza monetaria attesa dai mercati tra Fed e le altre principali banche centrali. Difficile, quindi, che il dollaro si rafforzi in misura considerevole nei prossimi mesi e anni, così come appare difficile immaginare che il petrolio acceleri ben oltre i livelli attuali, tra energie rinnovabili che avanzano e accordo OPEC che giunge al termine. E sappiamo come il petrolio sia passato dai 40 ai 70 dollari solo per effetto dell’auto-restrizione dell’offerta da parte di grandi produttori come Arabia Saudita e Russia nell’ultimo anno e mezzo.
Un dollaro più debole e un petrolio stabile o persino in calo sarebbero un mix perfetto per profetizzare un calo generalizzato dei prezzi a livello mondiale, corroborato dalla tendenza deflattiva della tecnologia, pur contenuta eventualmente da una “guerra commerciale” tra grandi potenze economiche, che si rischia nel caso in cui sfuggisse di mano la tensione USA-Cina sui dazi. Del resto, se ancora abbiamo nel mondo 7.000 miliardi di dollari di bond con rendimenti negativi, lo si deve proprio ad attese non certo drasticamente rialziste sui prezzi, anche se in buona parte si specula sulle variazioni attese dei cambi. Difficile, ad ogni modo, non capire che negli ultimi 35 anni il mondo sembra essersi incamminato su un percorso con prezzi sempre più stabili, i cui tassi di crescita tendenziali si sono praticamente ridotti a un decimo rispetto a quelli di inizio anni Ottanta.
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